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   Suonai il campanello di emergenza e poco dopo comparve la caposala.

   Le bastò un fugace sopralluogo per rendersi conto della situazione e senza dir nulla uscì, lasciandomi in balia di un pesante presentimento.

   Poco dopo rientrò in compagnia del primario e del suo aiuto.

   Dai loro sguardi eloquenti e complici compresi che mia moglie si stava spegnendo.

   Ci lasciarono soli per vivere gli ultimi attimi d’intimità.

   Il colorito della pelle di Liliana aveva già assunto un inequivocabile lividore, mentre gli arti ben presto furono preda di un intermittente tremore.

   Le guance divennero gonfie e tumefatte e le labbra disidratate mostravano evidenti screpolature.

   Mi accostai a lei e, parlandole sommessamente, le rammentai i nostri momenti di felicità, epitome di quindici anni di comune esistenza.

   Il suo viso si irradiò e lei inarcò le sopracciglia per farmi intendere che aveva compreso il mio dire.

   Poi mosse impercettibilmente le labbra -Si-  ella disse -è stato tutto molto bello-  e progressivamente cadde in una fase di coma vigile.

   All’improvviso in una sorta di sub-delirio esclamò: -Guarda, guarda quanti fiori! –

   Le presi tra le mani i capelli, ormai inerti e opachi, e carezzandola la acquietai.

   Gradatamente il suo respiro divenne affannoso e presto si trasformò in un crepitio respiratorio che s’interrompeva ad intervalli sempre più lunghi.

   Le pause ineguali del suo ansare tenevano sospeso il palpitare del mio cuore.

   Le albicanti pareti di una stanza d’ospedale, le labbra oranti poi serrate da salvifico dolore, un volto affilato, le scarne membra giacenti in un candido letto, l’estremo lumicino di uno sguardo che s’appaga dell’ultimo raggio di sole che filtra dalle fessure di una persiana, mille pensieri smarriti, confusi nella vaghezza del tempo dell’uscir di vita e l’angosciosa lotta di un’anima che è in agonica attesa di pace, rappresentavano lo scenario di un pietoso epilogo. 

   Un mesto silenzio, lo sguardo perso nel vuoto, un doloroso sospiro, erano invece i segni della mia estrema disperazione.

 

   Presi Liliana tra le braccia; ebbe uno spasmo… Sbarrò gli occhi e prima di esalare l’ultimo, profondo, terrificante respiro, con l’usuale sorriso, mi diede l’addio.

   L’ultimo suo alito cacciò dal corpo martoriato il demone della malattia.

   La carezza delle mie labbra si posò sulla sua bocca ed ella portò con sé il suggello dell’ultimo bacio e l’immagine del mio viso riflesso negli occhi che, con mano pietosa, chiusi per sempre allo vista del mondo terreno.            

 

                                                     

 

 

 

 

 

 

 

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Credo che l'art. "L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro" sia stato scritto il 1° aprile 48, ma pubblicato sulla Gazzetta un mese dopo... (C.Sias)
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