Aiutami a Vivere

 

 

 

 

 

 

 

Gianfranco PASANISI

 

 

 


   


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                             

A te anima, spirito parlante al mio cuore.

Voglio ricordare di noi, di quanto sia stato lieto

il nostro incontro e felice il nostro vivere insieme.

Doloroso è il nostro distacco, semmai distacco, vi è stato tra noi.

 

 

In te e con te, amor conobbi.

 

 

Gianfranco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                         

 


                                                           

 

                                                                                            Alfredo: “Un dì felice, eterea,
                                                                                                          Mi balenaste innante,
                                                                                                          E da quel dì tremante
                                                                                                          Vissi d’ignoto amor.”
                                                                                                          (La Traviata)

                                                                                       Don Carlo: “Io la vidi e al suo sorriso
                                                                                                         Scintillar mi parve il sol”
                                                                                                         ("Don Carlo" di Verdi)

 

 

Riposte in un cassetto, vi sono le cose che mi sono più care: una cornice d’argento con il suo ritratto e un orologio da viaggio da lei regalatomi il giorno del mio ventesimo compleanno.

Sono trascorsi quasi cinquant’anni da quella ricorrenza e ora le pieghe della mia pelle sono solchi profondi tracciati dal tempo.

Se lei fosse qui, ai miei occhi, apparirebbe la stessa di allora, una donna che la giovane età, il roseo colorito della pelle, le fini fattezze e i morbidi lineamenti del viso, rendevano bella.

È così che rivedo Liliana durante i miei segreti, quotidiani incontri con lei e la sua immagine immutabile appartiene solo a me, stampata indelebile nella mente e nel cuore. Nulla può cancellarla.

Che bei capelli: lunghi, morbidi, lucenti, neri…talvolta biondi.

Che bel sorriso…radioso, aperto, gioioso: un’avvolgente carezza.

Tremore nella voce, bramoso anelito, emozione: scoprii così di amarla.

Non la notai subito quella sera che fui invitato a una festa tra amici, in un casolare di campagna.

Intravidi solo il profilo del suo corpo; era quello di una silfide, appena disegnato dalla tremula luce delle stelle e da una pallida luna in novilunio.

Ero seduto su un muricciolo di pietra e nell’aria bruna si diffondevano le note e le parole di “Acqua azzurra, acqua chiara” di Battisti.

La musica carezzava il mio udito, i miei pensieri e faceva vibrare i miei sensi.

Quella fu, da quell’istante, la nostra canzone.

Dalla finestra aperta del casolare giungevano voci stridule di gioia, un chiacchiericcio di festa.

Lei era uscita per prendere una boccata d’aria. La luce fioca di un lampione pendulo mosso dal vento, illuminò appena la mia figura e un po’ la sua.

Mi avvicinai a lei e quando il fascio di luce rischiarò appieno i nostri volti, volse gli occhi verso di me.

Il suo sguardo era di attraente e seducente vaghezza eppure capace di esprimere, in quel momento, intensa sorpresa, intima gioia e serenità, per divenire poco dopo triste e melanconico.

Imparai, poi conoscendola, che esso era il riassunto di mille espressioni; il segno lasciato sul suo volto da sprazzi di vita, l’eloquente compendio di un reticolo di sentimenti.

 


 

 

Il sorriso e lo sguardo di lei, ancora oggi, illuminano i miei ricordi.

Nel vederla, sentii rimescolarmi il sangue: le note della musica divennero in un istante, per me, stille di rugiada posate, quale linfa rigeneratrice, su un fiore quasi avvizzito.

Prima di allora, credevo che non avrei più amato. Avevo vissuto una cocente delusione d’amore che mi aveva inaridito, mi aveva reso insensibile a qualsiasi richiamo d’affetto.

Invece, fin da subito, provai una incontenibile voglia di colmare il tempo tra la sua conoscenza e l’appartenenza a lei. Desiderai averla tra le braccia e, complice la melodia di quel disco, poco dopo la stringevo a me in un incerto ballo.

Indossava un vestito di fine tessuto e nel cingerla sentivo sotto le mani la morbidezza della sua pelle di velluto. Il profumo di lei mi inebriava e quando le nostre guance si sfiorarono, nella mia mente…era già mia.

Senza dir niente la guardai negli occhi. Lei, in silenzio, mi guardò dritto al cuore.

Nel paesaggio della campagna pugliese, allietato dal verso dei grilli, illuminato dalla pallida luna in novilunio dal chiarore d’argento, tra le ombre contorte di ulivi e l’odore di terra bruciata, ci donammo il primo bacio.

Dopo quella sera conobbi la felicità ed essa mi accompagnò lungo il cammino dell’esistenza di Liliana.

Abbiamo vissuto insieme la primavera della vita, qualche tiepido autunno, molte calde estati; ora viviamo un solo, lungo, eterno, rigido inverno.

In quell’incontro le nostre mani si toccarono e tenendocele strette intraprendemmo il cammino della nostra vita insieme.

Quanto durevole sarebbe stato il nostro comune percorso non c’era dato saperlo, allora.

Poi scoprii, fu doloroso, che il suo cammino sarebbe stato più breve del mio.

Spesso mi chiedo: perché il destino degli uomini, a volte, è così crudele?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

                                                                                                        Mimì: Son bella ancora?

                                                                                                    Rodolfo: Bella come l’aurora

                                                                                                       Mimì: Hai sbagliato il raffronto.

                                                                                                                Volevi dir: bella come un tramonto.

                                                                                                                (“Bohème” di Puccini)

 

Quindici anni dopo

<< Aiutami a morire >> m’implorò tra i singulti con voce strozzata, ormai resa fioca dagli ultimi aneliti di vita.

<< Se mi vuoi bene…se vuoi preservarmi da inutili sofferenze, compi l’estremo gesto e liberami per sempre da questi patimenti >> continuò Liliana stringendo rabbiosa tra le mani ossute, con raccapricciante disperazione, un lembo del lenzuolo.

     Se le forze le avessero consentito di procedere, avrebbe posto fine alla sua esistenza da sé, ma non poteva agire, bloccata da lungo tempo, ormai, dalla immobilità cui la malattia l’aveva costretta.

     Poi si rilasciò pian piano, obbligata da un cedimento di energia.

Con gli occhi mobilissimi, spiritati, rivolse lo sguardo agli arredi della camera: “la sua prigione“, come ormai la definiva. Sembrava che le immagini le apparissero irreali o non le fossero mai appartenute. 

     In quei gesti, in quelle rivelazioni, rivedevo la scena di mio padre morente e provavo lo stesso senso di impotenza per l’ineluttabilità degli eventi che si presentavano con la stessa intensità emotiva.

     Poi copiose lacrime, invano trattenute, le sgorgarono libere solcando in rivoli il suo viso emaciato e stanco.

     Piangeva di un pianto silente che segnava il mio animo di profondo turbamento.          Meditavo: in queste condizioni la morte è solo liberazione. Liliana soffre in modo atroce e non v’è alcuna possibilità di guarigione. Iddio le rifiuta il miracolo della vita o quello della morte senza patimenti.

     «A vivere in queste stato non ce la faccio più; vedo approssimarsi la fine. Avevo promesso che non ti avrei abbandonato, che saremmo invecchiati insieme ma non potrò mantenere la promessa, non mi è concesso». Mi disse con stanchezza e desolazione.

    Non riconoscevo più la sua voce; melodiosa e ben modulata, essa era divenuta disfonica e fiacca.

    Ancora una volta svaniva in lei la speranza di una guarigione ma questa volta…forse per sempre.

   - Non lasciarmi! Non sopporto l’idea di separarmi da te e sprofondare nell’abisso della solitudine e dello sconforto. Non sarò io a compiere ciò che mi chiedi - le risposi.

       Tacque e meditò sulle mie parole.

       Il temporaneo silenzio mi permise di interrogarmi: Posso attribuirmi il diritto di disporre di una vita? E’ giusto liberare da inutili sofferenze una persona che desidera anticipare la morte?

        Assecondare la volontà di morire di un essere a me tanto caro è davvero un atto d’amore o piuttosto un’imperdonabile violenza contro Dio, causa iniziale e finale.

 


 

 

     Sentivo un macigno gravare sulla mia coscienza e intanto continuavo a domandarmi: - se almeno potessi comprendere quanta determinazione vi è nella sua volontà di varcare la soglia della morte, di spegnere l’ultimo lumicino della vita, potrei decidermi ad esaudire la disperata richiesta.

    Ma nei trascorsi giorni, avevo costatato quanto mutevole sia la volontà di una malata terminale che è dibattuta nella scelta tra una vita sofferente e una dolce morte.

     In lei vi era stato, in alcune condizioni di profondo dolore fisico, il desiderio insopprimibile di abbandonare per sempre le cose terrene e rifugiarsi nella morte che dà sollievo e pace. In altre, aveva manifestato un attaccamento profondo a quei residui di vita che le erano rimasti.

- Che fare? -

     Mi tormentavo in questi pensieri e non sapevo dare risposta ai miei dubbi. Avevo consapevolezza che la vita di mia moglie lentamente si ritraeva come l’onda del mare che avanza verso la riva e li giuntavi ritorna all’immenso mare. Così è anche la vita, percorre il suo breve o lungo tratto per poi ritornare a Dio - dicevo a me stesso.

    Quel silenzio, eco dei miei pensieri e della meditazione di Liliana, fu violato dalle voci stridule dei nostri figli; quella realtà per un momento dimenticata, dispersa e affogata nel labirinto della mente, fece trasalire Liliana. Mi accostai a lei e sedutomi sul fianco del letto, soffocando a stento l’emozione che le sue parole avevano provocato in me, presi le sue mani tra le mie tenendole debolmente per non farle male.

<< Non puoi chiedermi questo>>  le dissi riprendendo i fili di un discorso interrotto.

<< Ti voglio bene, soffro con te, ma non posso farti dono della morte. Vorrei regalarti per sempre la felicità e la serenità che desideri>>.  

Mi guardò con languore e riprese:

<<Vorrei strapparmi l’anima per cancellare dal cuore i sentimenti e libera dalle emozioni morire in pace. Ricordo quando con gesto repentino schiacciasti uno scarafaggio che passò dalla vita alla morte in un attimo, senza soffrire. Se non avessi il peso della mia anima, ti chiederei di fare come facesti con lo scarafaggio… Un attimo e…>>

   S’interruppe reclinando il capo; l’angoscia le impedì di continuare. Si liberò dalla presa e con il tenero gesto della mano mi donò una carezza. Le tribolazioni insostenibili del suo corpo le avevano straziato l’anima.

   Mi confortò il pensiero che l’affetto dei suoi cari, la dolce realtà della sua esistenza, felice al nostro fianco, le avevano fatto riamare la vita.

   La legai a me in un amorevole abbraccio. Desideravo stringerla forte, con passione, ma le sue membra fragili non avrebbero resistito alle mie effusioni.

   Col sopraggiungere in camera dei bambini il volto di Liliana s’irradiò d’inusitata bellezza, un’appariscenza che scaturiva dall’intimo, dai reconditi recessi del cuore e dell’amore

- Sei bella…  -  le dissi con slancio.

- Da morire  -  mi rispose con amaro sarcasmo

                                                   

 


 

 

                                                                                          Azucena: Vedi!  Le sue fosche impronte

                                                                                                         Mi ha già stampato il dito della morte

                                                                                                         (Da “Il Trovatore” di Verdi)

 

 

Giunse l’aurora. Mi sorprese un albore senza orizzonte, indefinito, confuso tra il giorno e la notte.

Ero a Trieste, ma avrei potuto essere altrove…ovunque…in un luogo qualsiasi.

Pochi metri di pietre lastricali non erano indizio sufficiente per individuarne il paese.

Intorno a me dominava la nebbia e la luce sfumata dei lampioni illuminava i contorni impalliditi della città che si svegliava pigramente, ancora indugiando, nel letargo della notte.

     Il freddo frustava la pelle, s’insinuava pungente nelle ossa, invadendo tutto il corpo che si contraeva alle sferzate più gelide mentre un sole esitante abbozzava infruttuosa, pavida lotta contro la caligine. Si presagiva una impari contesa: la bruma stagnava tenace ed incombente, i deboli raggi la defloravano appena, creando uno spettro di colori variegati ed evanescenti, un pallido riverbero smorzato.

     Il mare non c’era… Occultato alla vista, si presentiva però dallo sciabordio dei flutti frangenti sull’approdo ed io acchiocciolato sul molo Audace ne inspiravo gli effluvi.

   Ero lì inerme e pensoso a contemplare il nulla evocando con nostalgia altre essenze odorose di mare a me caro, il mare del sud-est e logorando in mestizia le ultime ore d’insonnia trascorse all’addiaccio. Rumori cari a chi è solo mi giungevano a tratti indistinti, poi, sempre più nitidi.  Erano i fragori della città che si svegliava dal torpore e riprendeva lentamente il normale dinamismo.

     Sopraffatto dalla stanchezza e vinto dal sonno, risolsi ad andarmene.

     I rintocchi dell’orologio di piazza Dell’Unità risuonavano nell’aria con morbido rumore e si diffondevano soffusi nello spazio circostante.

     Scandivano le sette.

Ero sul molo ormai da due ore ed avevo trascorso la notte a girovagare per le vie deserte della città; rimuginare ancora sulla mia condizione non leniva le mie pene e non mi arrecava conforto.

     M’incamminai con andatura greve in preda ad un dilaniante tormento; la mente offuscata dall’insonnia era domata da un’idea già consolidata che fustigava il mio animo.

Ombre indistinte, vaghi contorni delineavano la passerella di Ponte Rosso e le barche dei pescatori ormeggiate al riparo, dondolavano mosse dalla leggera corrente che s’infilava nel canale.

Ero immerso in uno scenario irreale, come tra nuvole bigie di una notte senza luna, e la basilica ortodossa, appena tratteggiata nel suo imponente disegno, si mostrava più grigia del solito,

Percorrendo quel tratto di strada con la tristezza nel cuore finalmente giunsi alla locanda Delfino: un residuo, resistente, avanzo del centro storico.

La pensione si trovava in un augusto palazzo a cui si accedeva attraverso un enorme portone sovrastato da cariatidi terrificanti e da maschere tragiche in pietra dalle inquietanti espressioni.

 

 


 

 

Salire le scale? Dovevo! Raccolsi l’ultimo scampolo di energia e arrancando afferrai il corrimano della ringhiera a sostegno del mio corpo, reso gravoso dalla stanchezza. Raggiunsi il primo piano; suonai il campanello, il trillo mi rintronò la testa.

      Indistinto, poi più definito, udii lo scalpiccio di ciabatte sul parquet e poco dopo le mandate della serratura. L’uscio si aprì.  Apparve una donna di età imprecisata dal volto solcato da rughe profonde e dalle gote rubizze e pendule. Era Elide la pensionante.

     Il trucco pacchiano e pesante del viso risaltava un tentativo mal riuscito di correggerne i difetti e di nascondere la perduta elasticità e freschezza della carnagione.

    L’acconciatura dei capelli raccolti sopra la nuca e tenuti su da abbondante lacca non impediva di rilevare la perdita di vitalità della capigliatura che appariva sintetica, simile al crine di una bambola.

     Trapelavano dal viso segnato della donna gli intimi tormenti di un’essenza sofferta, trabocchevole di angoscia e ansietà soffocate nell’alcool e nel fumo.

     Il vissuto di due eventi luttuosi, il suo unico figlio perduto in un incidente stradale e il marito morto di cancro, pesava non poco sul suo stato emotivo e fisico. Si era trovata sola ad affrontare, da sola, un profondo dolore e a gestire la pensione per sopravvivere.

     Rivelava a tutti, senza riserbo, gli eventi della sua travagliata vita; raccontava la sua sventurata storia anche a sconosciuti e occasionali interlocutori, sperando nella commiserazione pietosa degli altri. S’illudeva, cosi agendo, di lenire il suo dolore, di esprimere sentimenti che lei non voleva negarsi e che sgorgavano incontrollati in colloqui incentrati su quegli accadimenti.

      Cercava negli estranei una condivisione che molti le negavano, con indifferenza.

- Su questa tera semo fatti per soffrir - soleva ripetere in un cantilenante e indefinibile lessico, come a volersi consolare dell’altrui noncuranza.

Si consegnava così, senza ribellarsi, alla rassegnazione e alla sventura.

     Elide… Da quanto la conoscevo…forse da venti anni. Nel mio ricordo era stata sempre così: una donna appassita, stanca, dimessa, trasandata.

     Custodiva però nelle movenze una sensualità che appariva grottesca, riguardo ad un corpo degradato.

       Un labile, impercettibile indizio di trascorsa bellezza trapelava dal sorriso leggero appena accennato sulle labbra sensuali, costantemente dischiuse in un moto benevolo e compiacente e si esprimeva con la grazia lieta e rassicurante dei gesti e con gli occhi vivaci e luminosi.

     Una vestaglia scolorita e lisa le fasciava il corpo fin quasi alla caviglia mostrando un fisico appesantito dagli anni e dagli acciacchi ma un tempo certamente piacente.

     Ricordava nell’aspetto Bette Davis in “Angeli con la pistola” e immaginavo che solo un esperto visagista e un adeguato maquillage avrebbero potuto restituirle appieno ciò che residuava della consumata bellezza. 

     Rivolsi alla donna un compiacente e stereotipato sorriso con l’intento di eludere ogni tentativo di colloquio.

     Il mio animo già colmo di tristezza non poteva aprirsi alle altrui avversità.

 


 

 

     Conoscevo la sua storia; lei conosceva la mia. Non intendevo sentirmi ripetere ciò che avevo più volte appreso di lei. Elide, sensibile al mio umore, ricambiò il saluto con cortesia e mi fece cenno di entrare senza però tentare alcun approccio verbale. Frugò nella tasca della vestaglia dai bordi untuosi, ne estrasse delle chiavi e trovata quella della mia camera me la porse. Emise un languido sospiro. 

Poi: - semo fatti per soffrir – rimuginò e si allontanò lungo il corridoio ciabattando.

Stetti a guardarla, ne osservai l’ancheggiare sinuoso e mi diressi verso la camera. Nella stanza percepii odore di muffa; l’intonaco delle pareti era scrostato e salmastro. Gli arredi sgangherati rivelavano i segni del tempo. Provai un penoso senso di abbattimento, di sconsolato abbandono.

     Il mesto desiderio di morte mi aveva ormai sopraffatto.

Triste scenario per l’epilogo di una vita!  La solitudine mi sottraeva alla visione pietosa dei miei cari e ai loro affetti, all’ultimo bacio, all’ultima carezza, al dolce suono delle loro voci.

Da giorni ascoltavo ossessivamente il Valzer Triste e Il Cigno di Tuonela di Sibelius e la voglia di risentirli mi prese. 

     Feci cadere il mio corpo supino sul letto e mi immersi nell’audizione mentale di quella melanconica musica. Meditai: “Cigno che nuoti nelle acque di Tuonela canta per me e in me ravviva il desiderio di morte per ricongiungermi a lei che mi aspetta impaziente… Non può più attendere.  E questo valzer triste mi trascini nell’altra vita dov’è colei che mi ama “.

     Una macchia giallastra si stagliava sul soffitto e appariva ai miei occhi la angosciante figura di una larva, influsso della mia psicologia.

Mi sovvennero i test di Rorschach. Le mie angosce i mie conflitti erano riassunti in uno psicogramma. La memoria si dipanò: i ricordi riaffiorarono repentini e confusi in una commistione di immagini, come in una pellicola di film, cui avessero mescolato i fotogrammi.

Rivivevo spaccati di vita: la mia adolescenza, le occasioni mancate, gli errori compiuti, gli amori finiti e quelli mai cominciati.

Ricordai il primo incontro con Liliana, l’emozione che provai, rammentai l’irrequieto palpitare del mio cuore irrequieto.

Svaniva in me la speranza.

Disarmato, attendevo l’Amazzone falcidiante che si avvicinava con ghigno sarcastico e beffardo. Si presentava “mio io tacito” me stesso conosciuto e misconosciuto, stimato ed amato, disprezzato e odiato.

Pensai ai contesti in cui ero stato coerente e controverso, limpido e opaco, probo e disonesto; alle occasioni in cui ero stato buono e malvagio; alle circostanze nelle quali la vita mi aveva reso leale ed infido, disgraziato e fortunato, capace ed inetto…indulgente e severo.

Chi sono, chi sono stato, cosa sarò? E dopo?

 

Pensavo:

La mia vita declina e non mi è dato sapere se la mia anima vagherà inquieta nella prateria degli Asfodeli, se sprofonderà negli abissi del Tartaro e se come Teseo sarò imprigionato per sempre nella sedia dell’oblio, se sarò attorniato da sibilanti serpenti, fustigato dalle Moire,

 


 

dilaniato dai denti di Cerbero e se sarò oggetto del ghigno di Ade. Non mi è dato conoscere se il tuo amore mi ha mondato dalle scorie dell’esistenza e così purificato possa assurgere ai Campi Elisi, all’ameno soggiorno degli spiriti pii, là dove “ogni affanno cessa” là dove “comincia l’estasi di un’immortale amore” presso di te Liliana.

Perché tu certamente vivi oltre la morte, in una dimora serena, abitata dagli eletti, in un luogo di delizie, che ti affranca dalle sofferenze terrene. Tu creatura della luce e non del buio, del sole e non della notte profonda ed eterna, hai meritato un luogo di bellezze sovrannaturali e mi auguro che le pene, l’intimo dolore, la disperazione da me patiti per il tuo distacco trovino compenso nell’altra vita, nell’immensa gioia del tuo incontro.

Tu vivi ormai l’esistenza di una vita nell’aldilà, nell’Olan habah (nel mondo che viene), io in un presente terreno di sofferenze e di difficoltà in attesa di essere, come te, riportato in vita in un mondo perfetto.

 

Non mi è concesso sapere su quale palcoscenico si reciterà la trama della morte.

Forse il solenne giudizio sarà tenuto al cospetto di Osiri, sovrano e giudice dell’oltretomba e le Mê-e, le dee della rettitudine mi introdurranno nell’ampia sala del tribunale. Vedo il mio cuore collocato su un piattello della bilancia, mentre sull’altro è riposta la piuma di struzzo come peso a misurare la mia dirittura morale.

Vedo Hôro a testa di falco e il dio Anubi a muso di sciacallo che controllano inflessibili e scrupolosi e Thout che mette per iscritto il risultato.

Sarò meritevole di recitare la confessione di non aver giammai contravvenuto ai principi virtuosi del bene e dell’onestà?

Nafs (anima coranica) avrà vinto le impulsioni del male che la sollecita; è tranquilla o mi rimprovererà e mi biasimerà per il male commesso?

Come risponderò al Munkar e Nakir?

Subirò il dolore cocente della punizione o la beatitudine del premio fino al giorno della   risurrezione Qujama?

Chi potrà mai conoscere tra i vivi la sorte dell’anima distaccata dal corpo; chi potrà conoscere cosa ci attende oltre l’esistenza mortale?

La vita terrena è forse la preparazione ad una vita più alta?

E’ bello immaginare ciò che della morte pensano i cinesi: I defunti si raccolgono nel Palazzo Celeste, nell’Orsa Maggiore custoditi da Orione. Dopo la tua morte, Liliana, nelle notti terse ho spesso osservato il Gran Carro e ho immaginato che tu sia li, la stella più lucente tra le “Efelidi della notte” come amavi definire quegli astri. Ricordi?

 

Notte stellata

 

Stelle,

efelidi della notte,

vaghi astri del cielo

che illuminate cirri lontani

con tremuli sprazzi di luce…

 


 

io vi protendo le mani imploranti

in cerca di pace

e sento palpitare il mio cuore

che si strugge

per un sentimento

che fugge

lontano da me.

 

Anch’io ricordo.

Quali e quante immagini affollavano la mente. Ero imbrigliato in una spirale, in un turbinio di ricordi, in un vortice di pensieri.

Una tempesta dell’animo, un uragano di sentimenti, travolgevano il mio essere.

Mi ripetevo ossessivamente: chi sono, chi sono stato, cosa sarò?

Contraddizioni, incoerenze, amore, risentimenti, fortuna-sfortuna, gioie-dolori.

Poi all’improvviso fui pervaso dalla quiete, dalla bonaccia.

L’animo tormentato si acquietò e dolce il ricordo lo inondò di una marea di visioni liete e serene.

- Ho vissuto una felicità estrema al fianco di una dolce, tenera ed affettuosa compagna. Felicità estrema…all’ultimo limite più oltre non si poteva. La morte che stronca il bene e il male, il seducente e l’arduo dell’esistenza, ha reciso una vita a me tanto cara ed ha distrutto la mia, senza spezzarla ancora. -

     L’immagine di Liliana evocata dalla rimembranza, chiara e nitida nei contorni, mi apparve d’un tratto, stagliata sul soffitto di quella squallida camera…

Metamorfosi di immagini … Test di Rorschach… Macchie di umido… Larva… Volto di donna… Giochi d’ombre sui muri… Il volto della morte… Il volto dell’amore… Il volto della mia donna.

Sentii stringermi il cuore e fui preda di una profonda sofferenza, assalito da una amara considerazione: - la debolezza del mio coraggio cedeva alla forza della mia viltà, la stima di me veniva ora sopraffatta dalla fralezza dell’animo umano

Mi scoprii d’un tratto protagonista della disfatta o fautore del mio trionfo. La morte mi aveva strappato all’affetto Liliana, ma da lei era sbocciata la vita: i miei figli.

Ero rinvigorito da una ritrovata forza d’animo, da una prorompente voglia di vivere e di reagire. D’un tratto mi sovvenne l’invito di Liliana implorato durante la sua agonia: - Aiutami a morire - ella aveva detto. Lasciando libero sfogo alla commozione pensai ai nostri ragazzi. Essi avevano ancora bisogno di noi, del dolce ricordo della madre e della presenza del padre.

- Bisogna dar loro esempi positivi - dicevo a me stesso – ho insegnato loro il valore     del coraggio e non la viltà.

     Parlando ad una presenza agognata, ma non esistente se non nell’universo della speranza e della fede, rivolgendomi a colei che ormai non c’era più e il cui spirito sentivo alitare in quella tetra camera, sussurrai: - Aiutami a vivere -

Il bisbiglio uscii dalla gola come un urlo sibilante di disperazione.

Sentii sorreggermi fisicamente. Qualcuno mi sosteneva cingendomi i fianchi con le sue braccia; mi aiutava a rialzarmi.

 


 

 

La ritrovata consapevolezza delle responsabilità, l’amore nutrito per mia moglie, in vita come in morte, l’affetto dei miei figli, avevano ricacciato dalla mente l’assurda idea di tagliare quel filo che mi ero apprestato a recidere.

   Spalancai le imposte semichiuse. La camera fu inondata di luce. Il sole aveva vinto la sua contesa con la nebbia ed ora tracotante festeggiava la sua vittoria.

     La città vibrava di vitalità… Respirai profondamente…riordinai in fretta la valigia.  

Poche ore dopo ero sul treno. Ritornavo a casa, quella che era la mia nuova casa e nel bagaglio dei miei pensieri uno fra tutti ritornava imperioso: “Aiutami a vivere” .                                                                                                                                

                                                                                                                                                                                             

                                                                       

 

 

                                                               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

                                                                                               Gilda: Se i labbri nostri tacquero

                                                                                                         Dagli occhi il cor parlò

                                                                                                         (Da “Rigoletto” di Verdi)

   

Il silenzio, spesso, era il complice compagno delle nostre serate. Messi a letto i bambini, ci piaceva sprofondare sul divano, senza dirci niente.

     Lei era solita stendersi adagiando la testa sulle mie ginocchia; io seduto ero prodigo di carezze che le largivo al viso ed ai capelli.

     Stavamo cosi per lungo tempo.

     Talvolta ci piaceva stare con la luce spenta ed essere avvolti dal buio, perché nell’oscurità ciò che gli occhi non vedono e le parole non dicono lo percepisce il cuore.

      Nella nostra realtà quel silenzio senza immagini si tingeva di vari colori, di varie sfumature.

      Ci esprimevamo con un linguaggio tutto nostro che altri non avrebbero potuto decifrare e, con quel codice, riuscivamo a leggere i nostri segreti pensieri.

      I silenzi di Liliana poi erano fatti di tormenti, di introspezioni, di analisi, di sentimenti pudichi che si agitavano nel suo interiore e mai esteriorizzati se non dall’espressione del volto, dalla radiosità o dalla cupezza dei suoi lineamenti, dal corrugarsi della fronte o dal suo spianarsi.

     Solo chi, come me, viveva in perfetta simbiosi col suo intimo, poteva leggerne i geroglifici dell’animo, interpretarli e tradurli. 

     Alcune volte la sua mente era attraversata da tristi ricordi; l’espressione del suo viso si contraeva ma il suo sorriso era comunque lo stesso: rassicurante.

      Pareva mi dicesse: I mie mesti pensieri riguardano il passato, ma il mio sorriso ti dica quanto ora sono felice.

     Lei parlava con gli occhi, con gli sguardi ridenti o tristi, con le labbra atteggiate a dolci sorrisi o a smorfie di dolore.

     E talvolta parlava di sé con le mie dita.

     Quando la sua mente era attraversata da tristi pensieri, da dolorosi rimpianti, da funesti ricordi… Quando il suo essere inquieto cercava conforto e condivisione mi torturava piacevolmente le pipite delle unghie, sfregandole contro le sue.

    Quel silente stato di abbandono ci univa perché composto di immagini che si modellavano nel nostro sentire e che avevano quali protagonisti noi due insieme o noi due distinti.

    Come erano piacevoli quelle serate senza la televisione, vissute in completa fusione emotiva in cui non erano necessarie le parole per esprimere i moti dell’anima.

    La dolce meditazione in cui ci immergevamo era armonia: una consonanza di voci, di accordi che destavano in noi una sensazione di piacere coinvolgente i sensi e l’intelletto.

    A volte era la cornice di una tela, dipinta a due, raffigurante frammenti di vita vissuta insieme e non era raro scoprire che in quelle lunghe pause del linguaggio avevamo seguito uguali itinerari, identici ricordi.

     Era piacevole poi svelarci che la nostra mente era stata attraversata dagli stessi pensieri.

 


 

 

     Il silenzio si insinuava nel labirinto delle emozioni e le permeava agevole, restituendocele poi con le parole.

    Altre volte ci conduceva in spazi infiniti verso un anelito di libertà dello spirito che non conosce la limitazione della verbosità.

    Spesso ci abbandonavamo inerti, avvolti dalla quiete estatica che nasceva dalla condivisa ammirazione per la natura.

    Essa è stata spesso il palcoscenico dei nostri sentimenti: nostra figlia fu generata su un prato ed io ero inebriato dall’olezzo dei fiori di campo e dal profumo di Liliana.

    Durante le nostre sortite domenicali, distesi sull’erba dei prati di Basovizza, supino, con la testa posata sul suo seno, accettavo il dono delle sue effusioni, fissando il cielo.

     Aprivamo i nostri sensi, spalancavamo la porta del nostro intimo e ci appagavamo di noi, nell’atteggiamento mistico di chi si trova di fronte all’ineffabilità del creato.

     E poi…il silenzio…il silenzio di una pietosa reticenza: allorquando tacqui durante la fase terminale della sua malattia sugli allarmanti scenari che il suo oncologo mi aveva rappresentato, presagendo la sua imminente fine.

     In alcuni silenzi c’era Dio, in altri un solitario ed opprimente orrore.

     Ho vissuto con la compagna della mia vita silenziosità che esaltavano l’anima, altre invece che la devastavano.

     Dopo il suo abbandono, il mio mutismo è diventato manifestazione di dolore, depressione psicologica, deliberata rinuncia al colloquio sostenuta da modi intrattabili e ombrosi.

    Rinuncia, in cui il silenzio è gravoso, ingombrante, carico di tensione e di ansia.

    Ora congiura contro di me, rode il mio essere; fa sentire il risentimento, esprime frustrazione ed estraneità, manifesta infelicità ed impotenza. Non esprime più la silente voce di un cuore felice, ma un solitario rancore.

     Ascoltavo il silenzio dell’anima che parla a se stessa; ora ascolto quello della rabbia e della ribellione interiore.

     Prima…rassegna della sensibilità, del fervore, in cui si rappresentava il tacito fluire della felicità. Ora…fiera dell’indifferenza imperturbabile in cui si rappresenta la disfatta di un cuore privo di desideri e di sensazioni, annegati nel cinismo che alberga in un’anima rinsecchita e resa sterile dal dolore.

    

 

                                                                                    

 

 

 

 

 

 

 


 

                                                                             Violetta VALERY: È strano! Cessarono gli spasmi del dolore

                                                                                                      In me rinasce…m’agita insolito vigore.

                                                                                                      Ah! Io ritorno a vivere

                                                                                                      (Da: “La Traviata” di Verdi)

                                                                           

      Eravamo soli.  La tenue luce di una abat-jour diffondeva un soffuso chiarore nella camera da letto.

     Nell’ambiente ancora si aspiravano gli odori di una colazione da poco consumata dai ragazzi. C’era un silenzio inusitato somigliante al silenzio di una corsia di ospedale nell’orario di riposo dei degenti: il silenzio della sofferenza cui ci si è rassegnati.

     Entrai in camera, alzai le tapparelle: il bagliore del sole inondò la stanza. La luce più intensa mi permise di guardare il volto di Liliana che spuntava dalle coltri come una marmotta, che curiosa e timida si affaccia dalla tana. Mi parve più distesa e rilassata. Aprii le imposte; ci giunsero i rumori della città e le voci della natura: il rombo di un’auto, il garrire di un passero, un lieve stormire di foglie.

     - Che bella giornata -  mi disse.

     - Se mi sentissi in forma, farei volentieri una passeggiata sulle “alte”.

     - Devi pazientare ancora. Quando sarai perfettamente guarita, riprenderemo le sane e care abitudini - le dissi.

     Perfettamente guarita! Che illusione e, soprattutto, che pietosa bugia.

     Sapevo in cuor mio che la guarigione di Liliana restava uno speranzoso desiderio che solo un miracolo poteva esaudire.

 Ostentando un’aria di normalità mi avvicinai a lei e le sussurrai:

     -  Ti preparo un caffè?

     -  Si lo prendo volentieri. Rispose sommessamente accompagnando le parole con un cenno della testa.

     Poi abbozzò un sorriso inarcando le sopracciglia quasi si vergognasse di concedersi tale privilegio.

     Preparai la bevanda, la versai nelle tazzine riposte su un vassoio sul quale vi posai un fiore, disposto con gli altri in un vaso.

     - Oggi ci dedichiamo solo a noi -  le dissi mentre mi apprestavo a sistemare il tête à tête sul comodino.

Lo sconforto iniziale si trasformò in un tiepido ottimismo. Vivevo momenti di estremo trasporto. L’infermiera l’aveva lavata e pettinata, raccogliendole i capelli sulla nuca. Mi   apparve bellissima…come quando l’avevo conosciuta. Lei non era la stessa di dieci anni prima, ma cosi pulita, così acconciata, la sua restante bellezza si esaltava e i suoi tratti somatici mi ricordavano quelli che prima della malattia le erano stati propri. Il letto era stato rifatto con lenzuola fresche e profumate di bucato. Sembrava che fosse stato predisposto da mani complici e compiacenti, per un consesso d’amore. La sua pelle detersa aveva acquistato nuova vitalità. I pori non trasudavano più l’odore della chemioterapia e la rinnovata freschezza faceva vibrare i miei sensi.

 


 

 

     D’un tratto trasalì, lo sguardo diventò opaco, perso nel vuoto. Il viso si contrasse in uno spasmo di dolore. La tazzina che stava portando con mano tremante alla bocca le cadde e il caffè si versò lasciando traccia sul lenzuolo.

Effimere illusioni, vana speranza, scherno della realtà: gli effetti del sedativo che le era stato somministrato, poco prima, erano cessati e con essi un breve sprazzo di normalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                           

 


                                                                                            

                                                                                                         La sorte amica vi sia fedel

                                                                                                         (Da: “Don Carlo “di Verdi)

 

Spesso al centro oncologico, incontravamo una giovane donna che desolata se ne stava seduta su una poltroncina della sala d’attesa del reparto.

Avrà avuto trent’anni.

Sgranava su un viso dall’ovale perfetto, dolcissimi occhi da cerbiatta ed esibiva un grazioso nasino all’insù e serici capelli corvini, rispuntati da poco.

Il sorriso accattivante le conferiva un’espressione vispa e ridente.

Il tutto era compendiato da un corpicino esile ma assai armonioso.

Di frequente osservava Liliana e me con strano interesse e curiosità.

Un giorno, uno dei tanti del ciclo di chemioterapia, si intrattenne con noi in confidenziale colloquio e durante quella conversazione apprendemmo della sua origine siciliana e del suo intimo dramma che travalicava le apparenze del suo fisico.

Bastò poco perché le due donne, lei e Liliana, diventassero amiche; compagne di sventura lo erano già.

- Vi osservavo da tempo -  esordì - e provo per voi una grande ammirazione. Siete sempre insieme e palesemente innamorati; trovo il vostro rapporto amorevole e tenero.

   Poi rivolto a me: - Rilevo che rivolge a sua moglie particolari attenzioni.

   - Iddio mi perdoni - continuò -  ma provo una certa invidia, un sentimento frustrato di ciò che non mi è stato concesso e che voi avete: la condivisione.

   Mio marito, appresa la notizia della mia malattia mi ha abbandonata per un’altra donna, colei che nel suo cuore prenderà il mio posto, ammesso che mi abbia veramente amata. Già prima di andare a vivere altrove mi portava in casa quella signora.

    Seguì una breve pausa, una temporanea sospensione del discorso che le permise di elaborare una considerazione: - Il vostro amore vincerà sulla malattia -  presagì.

    - In me l’amarezza di un amore non corrisposto e la sofferenza causata dal morbo, che consuma il corpo e dilania lo spirito, suscitano sentimenti di penoso abbandono. Sono sola al mondo; non ho nessuno.

    Iddio non mi ha concesso neanche la gioia di avere un figlio.

    I miei, ormai non ci sono più e vivo la mia condizione senza avere vicino chi mi aiuti a superarla. Non ho alcuna ragione per vivere: non ne ho più la volontà. Prego il Signore che questa devastante malattia ponga presto fine ad una infelice esistenza.      

   Non è vivere quando ci si sente un relitto umano e i propri sentimenti vengono così brutalmente calpestati!

   I suoi occhi si inumidirono e ancor più brillarono e il suo viso si contrasse in una smorfia di profondo sconforto.

- Non disperi - disse Liliana - Venga a trovarci quando vuole. Sarà per noi una persona di famiglia, se naturalmente vorrà accettare la nostra amicizia.

- Vi ringrazio -  continuò - ma non voglio farvi pesare la mia presenza e addossarvi anche i miei problemi -  Avete già i vostri.

   Sospirò e con voce tremolante dalla commozione si rivolse a Liliana:

 


 

 

    Lei ce la farà, ne sono certa. Ha un buon motivo per vivere, per lottare.

    Il primario sostiene che per sconfiggere il cancro è determinante lo stato psicologico del paziente, la sua volontà, la sua predisposizione d’animo. -   

    Di nuovo sospirò e rivolta ancora a Liliana -Il vostro amore vincerà sulla malattia- preconizzò con ottimistica certezza.

   Ma ahimè, si era sbagliata: Liliana di lì ad un mese morì ed io non ho più rivisto quella donna. Probabilmente ella vive ancora col peso del suo triste passato.

    O forse, non è più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                    

 

                                                  

                                                 


                                                     

                                                                                                         “Lassù ci rivedrem

                                                                                                          In un mondo migliore”

                                                                                                          (Da “Don Carlo “di Verdi)

 

    Le condizioni di Liliana erano precipitate in modo irreversibile e preoccupante.

    Ormai le metastasi erano disseminate in tutto il corpo ed avevano aggredito in particolare i tessuti ossei.                                                                                                                

    Il suo corpo era scarnificato e lo stato avanzato della malattia aveva prodotto delle infezioni: le piaghe da decubito marcivano e diventavano purulente diffondendo germi nel letto e nell’ambiente.

   Per motivi igienici avrei dovuto approntare per la notte un altro giaciglio, ma in cuor mio non volevo riservare a mia moglie la mortificazione di non avermi al suo fianco.

   E poi, anche se corrotta nel corpo, la sua vicinanza fisica soddisfaceva una mia intima esigenza e risvegliava in me un rinnovato trasporto emotivo.

   Mi dava la forza di continuare l’impari lotta contro il male e mi illudeva che saremmo tornati alla normalità, a quella normalità che aveva portato alla fusione dei nostri corpi nell’impeto dell’affetto e della passione mai sopiti tra noi.

   Prima che l’aggravarsi della malattia le avesse impedito di amarmi fisicamente, su quel letto nuziale avevamo consumato anche l’ultimo, estremo, il più passionale dei nostri amplessi e lì ora ci scambiavamo carezze di straripante e straziante tenerezza.    

   Certamente quella era l’espressione pervasiva e dominante del vero AMORE, non più guidato dal desiderio ma profondamente radicato nella sfera delle emozioni, nei recessi dell’interiorità.

   Le giornate di Liliana ormai si svolgevano in un’alternanza di lucidità e di letargia.

   I momenti di chiarezza mentale me la restituivano in tutta la sua pienezza e le lacerazioni del mio cuore lasciavano spazio a una pur tenue, irrazionale, irrealistica speranza.

 

   15 ottobre 1987

   Quel giorno il medico di famiglia dispose l’ennesimo e ultimo ricovero di Liliana in ospedale.

   Al centro oncologico dove lei giunse con un’autolettiga le assegnarono una stanzetta.

   Mi domandai perché, come d’uso, non l’avessero sistemata in corsia con le altre, ma dopo ne compresi le ragioni.

   Quella stanza tristemente “riservata” era l’anticamera della morte.

   La visione di una moribonda affetta da cancro, avrebbe fiaccato l’esile speranza e corroso la fragile sensibilità delle altre degenti che erano in bilico tra la vita e la fine.

   Eravamo ormai all’epilogo, ma non mi rassegnavo.

   In altre occasioni vi erano state delle ricadute della malattia, ma ogni volta lei si era ripresa.

   Presto subentrò lo scoramento, ineluttabile, implacabile.

   Nel blandire la fronte di Liliana notai che questa era fredda.

 


 

 

   Suonai il campanello di emergenza e poco dopo comparve la caposala.

   Le bastò un fugace sopralluogo per rendersi conto della situazione e senza dir nulla uscì, lasciandomi in balia di un pesante presentimento.

   Poco dopo rientrò in compagnia del primario e del suo aiuto.

   Dai loro sguardi eloquenti e complici compresi che mia moglie si stava spegnendo.

   Ci lasciarono soli per vivere gli ultimi attimi d’intimità.

   Il colorito della pelle di Liliana aveva già assunto un inequivocabile lividore, mentre gli arti ben presto furono preda di un intermittente tremore.

   Le guance divennero gonfie e tumefatte e le labbra disidratate mostravano evidenti screpolature.

   Mi accostai a lei e, parlandole sommessamente, le rammentai i nostri momenti di felicità, epitome di quindici anni di comune esistenza.

   Il suo viso si irradiò e lei inarcò le sopracciglia per farmi intendere che aveva compreso il mio dire.

   Poi mosse impercettibilmente le labbra -Si-  ella disse -è stato tutto molto bello-  e progressivamente cadde in una fase di coma vigile.

   All’improvviso in una sorta di sub-delirio esclamò: -Guarda, guarda quanti fiori! –

   Le presi tra le mani i capelli, ormai inerti e opachi, e carezzandola la acquietai.

   Gradatamente il suo respiro divenne affannoso e presto si trasformò in un crepitio respiratorio che s’interrompeva ad intervalli sempre più lunghi.

   Le pause ineguali del suo ansare tenevano sospeso il palpitare del mio cuore.

   Le albicanti pareti di una stanza d’ospedale, le labbra oranti poi serrate da salvifico dolore, un volto affilato, le scarne membra giacenti in un candido letto, l’estremo lumicino di uno sguardo che s’appaga dell’ultimo raggio di sole che filtra dalle fessure di una persiana, mille pensieri smarriti, confusi nella vaghezza del tempo dell’uscir di vita e l’angosciosa lotta di un’anima che è in agonica attesa di pace, rappresentavano lo scenario di un pietoso epilogo. 

   Un mesto silenzio, lo sguardo perso nel vuoto, un doloroso sospiro, erano invece i segni della mia estrema disperazione.

 

   Presi Liliana tra le braccia; ebbe uno spasmo… Sbarrò gli occhi e prima di esalare l’ultimo, profondo, terrificante respiro, con l’usuale sorriso, mi diede l’addio.

   L’ultimo suo alito cacciò dal corpo martoriato il demone della malattia.

   La carezza delle mie labbra si posò sulla sua bocca ed ella portò con sé il suggello dell’ultimo bacio e l’immagine del mio viso riflesso negli occhi che, con mano pietosa, chiusi per sempre allo vista del mondo terreno.            

 

                                                     

 

 

 

 

 

 

 


 

                                                                                              Laura: “Havvi un Giusto, un Possente

                                                                                                         Che il guardo tien rivolto

                                                                                                         Sui miseri ognor.”

                                                                                                         (“Luisa Miller” di Verdi)

 

    Entrai nello studio di un neurochirurgo per un problema che riguardava la mia salute.

    Mi trovai di fronte un medico di mezza età, affabile ed assai cortese nei modi.

    Dopo aver parlato della mia protrusione vertebrale, mi guardò con particolare interesse e, con fare indagatore, mi scrutò a fondo.    

    Incuriosito gli chiesi cosa di me destasse quel particolare interesse.

    -Le parlerò con molta franchezza- esordì con voce ferma e decisa.

    Poi continuò - Sono uno studioso di fisiognomica e rilevo come i suoi tratti somatici siano influenzati da profondi mali dell’anima. Sul viso vi sono chiari i segni della sofferenza: gli occhi infossati, la contrazione del volto rivelano una profonda angoscia, una vita impastata di dolore in cui ci sguazza, distruggendo il suo essere.

Si liberi dei sensi di colpa e ricacci il risentimento per ciò che le è accaduto. Le lacerazioni del suo animo si trasformino in gioia di vivere.

    Non conosco gli accadimenti che hanno segnato così profondamente la sua vita, ma a tutti capita di sopportare il carico di un’esistenza penosa.  Abbiamo il dovere di continuare a vivere per noi stessi e per il prossimo che ci ama.

   Chieda perdono a Dio, a se stesso, agli altri: potrà riacquistare così la serenità perduta -.

     Mi delineai un sorriso di circostanza, uscii dall’ambulatorio medico infastidito ed in preda ad un inspiegabile turbamento.

    Le parole schiette del medico avevano purtroppo un senso, rivelavano una verità nascosta, un profondo significato che mi indisponeva. Avrei voluto esternare le ragioni della mia intima sofferenza, ma la stretta morsa del suo sguardo mi aveva irritato.

   -Perché chiedere perdono a Dio? - mi domandai quasi stizzito.

Dopo essermi posto quell’interrogativo, si affastellarono nella mente tutte le incognite che il destino umano pone alla coscienza rispetto a Dio.

Le ostilità interiori avevano inizio: si delineava un conflitto da combattere con le armi della ragione o della speranza e della fede.

     Il dolore di Liliana, lo strazio della sua lenta agonia, la solitudine angosciosa in cui mi aveva confinato il suo abbandono erano atti di accusa contro Dio ed a lui mi ero ribellato.

     Egli era stato severo, crudele. - “Aveva appesantito la sua mano sopra di noi” volgendo altrove il suo sguardo

 - Se Dio è Amore perché ha permesso tutto questo? -

Cosa ha fatto di male Liliana per meritare tanta sofferenza?

      Domande inquietanti le mie, a cui non sapevo dare la giusta risposta. Esse mi disorientavano.

 


 

      La morte aveva vibrato il colpo della sua scure ed aveva trasformato il mio essere

     Disprezzavo Dio. Eppure durante la malattia di Liliana mi ero rivolto a Lui con umiltà, sperando in un suo sguardo benevolo e misericordioso. Ma non avevo visto i segni della sua magnanimità e generosità.

Il mio grido di disperazione e di aiuto non era stato ascoltato e l’ultima traccia dei buoni sentimenti era scomparsa in me, vanificata dal dolore e dalla delusione.

    Come Giobbe chiamavo Dio a giudizio, “Al giudizio della ragione umana, che nella sua limitatezza non comprende le ragioni dell’onnipotenza divina

     Con la mia pochezza tentavo di scrutare l’imperscrutabile e intanto mi servivo di Dio a mio piacimento, lo cercavo e lo rinnegavo a seconda del mio comodo, ora implorandolo, ora imprecando contro di Lui.

    Superbo e spavaldo lo avevo sfidato coinvolgendolo negli accadimenti della mia vita, lo avevo chiamato a rendere ragione di sé ponendo a Lui le domande le cui risposte dovevo trovare in me, nella mia anima, nella mia spiritualità.

     “Riconciliati con Lui e tornerai felice” era il compendio delle parole del medico che ripetevano quelle pacificanti di Giobbe.

                     

                      “Le anime dei giusti, sono nelle mani di Dio

                       Agli occhi degli stolti parve che morissero;

                       la loro fine fu ritenuta una sciagura,

                       la loro partenza da noi una rovina,

                       ma essi sono nella pace. ’’

 

    Liliana viveva nella pace e finalmente comprendevo come “Una giovinezza, giunta in breve alla perfezione, condanna la lunga vecchiaia dell’ingiusto”.

     Meditavo sulla dignità e il valore della sofferenza liberamente accettata ed offerta.

    “Vorrei strapparmi l’anima…se non avessi il peso della mia anima” erano state le frasi rivelatrici di Liliana, indicative di una verità che non avevo saputo cogliere: la sofferenza è nel corpo, nessun tormento tocca l’anima dei giusti e nell’anima c’è Dio nella sua infinita Sapienza.

   “Se la vita e l’anima esistono dopo la morte, la morte è un bene per l’anima perché esercita meglio la sua attività senza il corpo”.

    E se con la morte l’anima entra a far parte dell’Anima universale, che male può esserci per essa? “(Enn.,I,7,3) 

    Vedevo le singole anime come unite in un tutt’uno a rappresentare l’anima universale.

                                                                                                                                                                                            

                         Beatus qui horam mortis suae

                         Semper ante oculus habet,

                         Et ad moriendum quotidie

                         Se disponit

 

    Beato chi ha sempre davanti gli occhi l’ora della sua morte ed a morire di giorno in giorno si dispone.

 


 

 

    “Non voler nulla di diverso da quello che è, non nel futuro, non nel passato, non per tutta l’eternità. Non solo sopportare ciò che è necessario, ma amarlo” era la sintesi dell’amor fati: accettare completamente la vita in tutti i suoi aspetti, anche in quelli più sconcertanti, tristi e crudeli.

    Talvolta avevo letto negli occhi di Liliana lo scorrere della vita, come in un documentario ripreso dalla telecamera delle proprie emozioni e proiettate sullo schermo del destino. Spaziava verso illimitati orizzonti, spazi grandi quanto un’esistenza ed anche oltre: sguardi che s’interrogavano sulla morte.

    Il pensiero del fato non mi arrecava né sollievo né angoscia ma mi consentiva di familiarizzare con gli eventi che si erano abbattuti come una valanga su di me.

    Li domavo, li arginavo. Impedivo che il fiume in piena del tormento tracimasse e inondasse il mio animo. Affogavo i devastanti sentimenti nel mare dell’accettazione della realtà, così come essa si era determinata e come mi era stata assegnata.

    Ed ancora mi domandavo:

    - E la morte non è forse un’altra vita?  Incorporea…

   Un distaccarsi dell’anima dal corpo… La vita umana è preparazione o avvicendamento ad una vita diversa?

   “La morte è come il tramonto del sole che è insieme, il levarsi del sole in un altro posto.”

   La vita soprannaturale è il fine a cui l’anima tende, la meta finale.

   Pensieri, citazioni, argomentazioni emersi dai recessi della reminiscenza o dall’affannosa ricerca della conoscenza e della verità, rischiaravano la mente.

   In quelle espressioni mi compenetravo perché erano la soluzione agli interrogativi interiori e le facevo proprie, sentendole mie.

   Prima, annichilito dal dolore, non avevo compreso la grandezza del messaggio che la vita e la morte mi avevano trasmesso con il loro disvelarsi.

Inoltre, condividendo la sofferenza di mia moglie, le avevo donato l’amore di cui avevo misurato l’infinita profondità, soprattutto nell’ora del suo distacco.

   Abbattuto, distrutto nel riposto, ridotto senza volontà, ero stato incapace di reazione e   mi ero chiuso in me stesso.

   - Si può amare un uomo irrigidito dal dolore, privo di ogni speranza, senza anima e dal cuore rottamato? - mi chiedevo prendendo consapevolezza della mia condizione.

   … Eppure, nonostante tutto…

   Quindi chiesi perdono…perdono a Dio per essermi rivolto a Lui con alterigia, a me stesso per non aver saputo apprezzare ed amare la vita, agli altri, per aver creato con la mia sofferenza un baluardo, una monade impenetrabile, una chiusura ermetica che mi aveva escluso dalle relazioni, rendendomi impermeabile all’affetto altrui.

 

 

 

 

 

 


 

 

Emozioni in musica

 

   Dopo la morte di L. il suo spirito pervase la casa.

   La sua fisicità dai contorni limitati, la materialità definita della sua dimensione, non erano più, ma il suo spirito inondava lo spazio infinito, era presenza muta ed eterea che mi avvolgeva come l’aria, sfuggiva ai sensi, invisibile, ma viva perché percepita dai moti dell’anima.

   Mi mancavano le nostre abitudini: darsi il buon giorno, farsi un caffè e sorseggiarlo insieme; gesti comuni, ripetitivi ma che costituivano la manifestazione della felicità.

   Mi comportavo come se lei fosse presente, a lei rivolgevo le parole della nostra usuale quotidianità.

   Poi lentamente, ma inesorabilmente, la consapevolezza della solitudine permeò la mia razionalità e si presentò col suo gravoso fardello.

   Durante il giorno le normali occupazioni riempivano con somma pena il tempo che progrediva col suo trascorrere lento…assai lento per me.

   A sera, quando i miei figli andavano a letto, si risvegliavano gli incubi.

   Spesso sprofondavo in poltrona e per tenere la mente occupata, ascoltavo i brani di musica che più di altri si confacevano al mio stato emotivo e la mia scelta cadeva sui drammi lirici perché mi compenetravo nella rappresentazione di storie tristi ad imitazione della mia.

   Il melodramma era lo specchio, l’eco fedele della mia vita, delle mie esperienze, la trasposizione scenica del realmente vissuto in una storia diversa eppure eguale nelle sfumature emozionali.                                              

   La musica s’impadroniva di me, della mia essenza, mi proiettava in una dimensione superiore, eccelsa; succhiava il nettare della mia sensibilità.

   L’anima si librava oltre la dimensione spaziale, si affrancava dal corpo. Per poi rientrarvi e poi ancora ne usciva, e talvolta sentivo che si separava completamente dalla fisicità, lasciandomi in uno stato di estasi ipnotica, di annullamento totale.

Sentimenti forti, incontrollabili, erano compagni dei miei tormenti.

   Il mio corpo talvolta era preda di forti e incontenibili pulsioni: Liliana mi mancava anche nella sua presenza fisica.

   Un rievocato, inebriante amplesso, di estrema languidezza, era modulato dalla delicatezza e dolcezza dei preludi. La forza prorompente dei finali, sublimava la libido nel dominio della composizione musicale.

   L’impeto sonoro dei fiati, il rullare dei timpani, erano sottofondi di una sofferenza amplificata. Gli strumenti all’unisono enfatizzavano la musica, s’accordavano sulle note dell’estremo mio dolore e del patimento dei protagonisti.

   Le corde degli archi vibravano in simbiosi col mio essere e la loro euritmia era come il mio amore perduto: struggimento e dolcezza, nostalgia e dolore, consolazione e conforto ad una vita sempre più dura da sopportare.

 


 

 

   Il mio dramma si perpetuava nel fraseggio e nella musicalità delle opere: -Amami Alfredo…com’io ti amo… Era il grido d’amore di Violetta Valéry, cantato con la potenza vocale ed il trasporto passionale della Sutherland – Quadro di un realismo atroce, amore tormentoso che si rinnovava in me.

   L’epilogo funesto della mia storia d’amore riviveva ne “La Traviata” ed anche in Fernando ed Eleonora di Gusman…. Oltre la tomba saremo riuniti…. Addio… È spenta…

   Ed ancora:

   - Che vuol dire quell’andare e venire, quel guardarmi così?

   - Coraggio … E poi l’invocazione finale, disperata di Rodolfo: - Mimì…Mimì.

   C’era Liliana in quel dramma, v’era la sua presenza, che si materializzava nei miei ricordi.

   Gli acuti finali in si bemolle o la cupa tonalità di re bemolle minore rilevavano gli ultimi aneliti di vita o la conclusione del dramma: acme in cui il crescendo della musica e del pathos interpretativo, gonfiavano le emozioni, che lievitavano in me e sempre più crescevano e toccavano l’apogeo della tensione passionale.    

   Un’esplosione emotiva deflagrante frantumava il cuore in mille pezzi, al pari di cristallo che colpito da contundente si sbriciola in minuscoli cocci.

   Poi le emozioni si purificavano in un piacevole alleggerimento. L’inquietudine cedeva alla serenità e alla conciliazione interiore.

   Provavo una percezione di liberazione, efficace medicina alle mie afflizioni spirituali, che placando i miei sensi mi concedeva la catarsi che solo la musica sa dare.

   Erano quelli i momenti in cui ritornavo a vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Il ritorno a Trieste

 

   L’angoscia, il patimento che mi avevano spinto a tornare a Trieste, dove per tre lustri si era svolta la mia vita, erano stati cagionati da un groviglio di ricordi suggestionanti che mi avevano roso l’anima.

   Il dolore intimo, violento, solitario, le sofferenze del mio spirito sensibile mi avevano logorato anche nel fisico, debilitato da uno stillicidio psicologico lento e continuo.

   Una rivisitazione dei luoghi a me noti, il percorso accidentato di un tortuoso sentiero delle “alte”, molte volte battuto in cui la vegetazione del Carso s’intreccia in un gioco di foglie e di sassi e la sua indescrivibile bellezza inebria e stordisce, ravvivarono in me sopite sensazioni.

   Dove il verde sembra sorgere dal mare per poi protendersi verso il cielo, in un abbraccio avvinghiante della montagna, avevamo sostato più volte, Liliana ed io, ad ammirare l’ineffabile bellezza del paesaggio che in autunno si tinge di colori dalle varie sfumature e tonalità, fino a confondersi con le tinte del tramonto; luoghi in cui spesso deponevamo la nostra quiete e dove l’animo e la mente si astergevano in un mare di serenità.

   Caleidoscopio di immagini, che raffiguravano con la loro armonia lo scenario di un profondo sentimento d’amore, immortalato nell’inquadratura di una foto che un compiacente passante aveva scattato per noi mentre, Liliana ed io, ci scambiavamo un tenero bacio.

   Itinerari di escursioni, che diventavano percorsi di vita.

   Quanto tormento nel rivedere quei posti, immagini di vissuto, teatro di passioni custodite gelosamente nella propria intimità ed ora riaffioranti e vivificate dalla rimembranza.

   E il ricordo riaffiorava ancora, col suo struggente morso, nel rivedere la cengia dove gli scalatori si fermano  in  sosta o il  panorama che si  gode da Monte Grisa,  meraviglioso nello sfondo  in cui il mare  si confonde col cielo e in lontananza si stagliano il porticciolo di Sistiana con i suoi velieri ondeggianti,  Miramare , castello di bianco vestito, incorniciato d’ azzurro e di verde, che nell’evocazione del Carducci fu “ nido d’amore costruito invano’’ e in cui si consumò la triste storia di Massimiliano d’Asburgo e della sua Carlotta  e poco più in là il castello di Duino, in cui si aggira inquieto il fantasma dell’infedele Dama Bianca, uccisa dal marito geloso, al rientro dalle crociate.

   Le nostre giornate festive le trascorrevamo in quei luoghi, da soli o in gioiosa compagnia di amici.

   Una sera di plenilunio, in cui la luna diffondeva un argenteo chiarore e miriadi di stelle punteggiavano il firmamento di una nitidezza inusuale, sostammo su una vedetta ad ammirare dall’alto le bellezze incomparabili di Val Rosandra.

   Le pieghe della montagna coperte dalla vegetazione, creavano un gioco di fioca luce e di ombre in contrasto col cielo rilucente che si rifletteva nelle acque tortuose di un fiumiciattolo e   di una cascata dal vivido colore di perla.

 

 


 

 

   Quel paesaggio era un invito all’amore e noi rapiti, contemplavamo quel quadro dipinto dalla natura, scambiandoci sguardi compiacenti e complici, preludio di tenerezze amorose che quell’atmosfera idilliaca rendeva cariche di sensualità.

Nell’intricato confondersi del passato e del presente il mio pensiero vagava per quei luoghi che rivedevo col rinnovato rimpianto di non avere al mio fianco colei che aveva condiviso con me, per anni, le delizie del mio animo.

   Mi mancavano la sua freschezza, la sua capacità di stupirsi, di rallegrarsi con l’entusiasmo di un bambino e l’abbandono di chi si consegna al dominio dei sentimenti.

   Le impronte lasciate nella mia coscienza e rievocate dalla memoria erano tracce superstiti di una felicità ormai svanita nel gorgo di una realtà che mi rifiutavo di accettare.

   Eppure erano trascorsi diversi anni, da quando lei era andata via.

   Nella sua reviviscenza, la memoria si nutriva di altre immagini di luoghi a me cari.

   Il laghetto di Percedol, dove i raggi del sole filtrano tra la folta vegetazione descrivendo giochi di luce iridescente e il gracchiare delle rane si unisce in concerto allo starnazzare delle oche selvatiche e allo sfrigolare delle salamandre maculose tra lo sterpame, fu il luogo dell’ultima passeggiata di Liliana.

   Il suo desiderio di restare a godere della serena atmosfera del posto, benché avesse di già difficoltà a camminare, ritardò il nostro rientro in città.

   Uguali sensazioni si ridestarono in me nel rivedere la Sella della Bora che mi aveva regalato l’immagine di lei abbandonata al gioco del vento che le faceva svolazzare il vestito, mettendo in evidenza le meravigliose forme del suo corpo mentre i suoi capelli scompigliati me la rendevano ancora più bella.

   E il Cippo Comici, l’osmiza di Pepi, dove mangiavamo prosciutto e formaggio, al termine di una scarpinata.

    I fiori della valle, col tripudio dei loro colori, mi fecero ritornare alla mente quanto lei le amasse quelle piante.

    Ricordai quella volta che consultando una guida botanica, indicandole una ad una, enunciavo il loro nome: le Ginestre odorose, l’Anemone Nemorosa, la Cordali Cava, la Pulsatilla Montana, il Geranio di San Roberto.

    Lei seguiva con molto interesse le mie esposizioni e forse fu quella l’immagine che le si presentò davanti quando, prima di morire, esclamò: - Guarda, guarda quanti fiori!

    La visione di quei paesaggi veniva trasfigurata in me da una vaga tristezza e da una stringente inquietudine, entrambe contornate da un ricordo che attraversava il perimetro del dolore.

 

 

 

 


 

 

L’infausta notizia

 

   Dopo aver consultato il referto bioptico, l’oncologo manifestò chiari i segni di un profondo scoramento ed emise un infausto, agghiacciante, verdetto: - carcinoma al seno con infiltrazioni metastatiche. –

   Poi dopo una breve pausa riflessiva giunse ad una sofferta ma lapidaria decisione:  

   - Bisogna procedere a mastectomia totale. La situazione è grave. -

   Ebbi uno shock emotivo: mi sentivo mancare il terreno sotto i piedi, il mio corpo era sospeso, incapace di reagire. Quali frasi avrebbero potuto lacerare di più il mio cuore di quelle pronunciate, con indubbia competenza, dal medico?

   Ero annientato, annichilito dal dolore, dallo sconforto. Le lacrime premevano sui miei occhi, ma le ricacciai. Dovevo riferire a Liliana l’infausta notizia e dovevo sminuire la gravità del problema per iniettarle una buona dose di speranza.

   Predisposi il mio stato d’animo a elaborare una mezza verità: riferire dell’inevitabilità dell’intervento ma al contempo mostrarmi sicuro del buon esito chirurgico e della conseguente guarigione.

    Dovevo nasconderle le previsioni che erano state diagnosticate in sei mesi di vita.   

    Come si fa a dire ad una persona cara: fra sei mesi potresti non esserci più? E come illuderla senza far trasparire dal proprio volto e dallo sguardo la menzogna, la reticenza, l’intimo dramma che si consumava in me?

    Eppure trovai il coraggio e il modo meno crudele per informarla 

    - L’avevo intuìto – mi disse con apparente rassegnazione quando le comunicai con estremo mio patimento la decisione del chirurgo.

    Poi un insolito tremore s’impadronì di lei, mi prese una mano, me la tenne stretta e cominciò a premere l’unghia del suo pollice sulla pipita del mio indice.

Era il suo modo di esprimere lo scoramento. La avvolsi in un tenero abbraccio, posò la testa sulla mia spalla e su di essa versò la sue lacrime di disperazione.

   Aveva solo trent’anni, eravamo sposati da sei ed avevamo due bambini in tenera età.

   Cominciò lì il lungo dramma, durato sette anni, delle sue tribolazioni e dell’immenso dolore  mio e dei miei figli per la sua sofferenza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


 

 

Considerazioni

 

   Cosa rappresenti per una donna una mastectomia totale con svuotamento ascellare e quali risvolti psicologici essa abbia, posso descriverlo efficacemente solo con le frasi e  i pensieri espressi da Liliana:

   "Si sono viva ma non sono più la donna che ero. Insieme al cancro hanno strappato la mia intimità, la mia identità fisica e psicologica. Non voglio mostrarmi più a te... Io stessa non riesco a guardarmi."

   La sua condizione l'aveva ricacciata in uno stato di isolamento affettivo/amoroso ed ella aveva  narrato una femminilità negata. Era stata tradita dal proprio corpo.

   La malattia l'aveva resa cupa e triste rivelando in lei uno stato di drammatico cambiamento.  Prima dell'intervento chirurgico, ella era stata gioiosa e sempre sorridente. Il suo carattere amabile e sereno si era scurito, poi, con le tinte di un amaro pessimismo.

   La sua tenerezza l'aveva esternata con riserbo per non rendere ancora più pesante l'inesorabile  cosciente distacco dai suoi cari.

   La lunga malattia di Liliana e la triste sua scomparsa m'indussero a valutare quanto sia fondamentale l'assistenza psicologica e sociale per i malati terminali e per i famigliari e quali conseguenze devastanti comporti un abbandono sulla psiche di questi ultimi.

 

 

Epilogo

 

   Liliana questa è la tua storia, la nostra storia, e non è tutta: è solo il telaio su cui ho intrecciato la rappresentazione dei nostri sentimenti, dei nostri momenti felici e del dolore che accompagna la nostra attuale vita, la mia, quella dei nostri figli.

   Molto ho taciuto di noi, ciò che agli altri non è dato sapere: i nostri intimi segreti che solo a noi abbiamo disvelato e che rinverdiremo quando ci rivedremo lassù, nell'ultimo, inesorabile e definitivo incontro. Sei presente tra noi, non sei mai andata via e quando penso come sarebbe stato con te viva, mi abbandono ad un sogno che avrebbe potuto essere, ed è stato per breve tratto della tua esistenza, una dolcissima realtà. A distanza di trentadue anni dalla tua morte ti piangiamo ancora e adesso che su di me porto il fardello di una vita profana,  ti invoco:  AIUTAMI A VIVERE. 

 

 

 

(Fine)

 

 

 

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