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                                                                                          Azucena: Vedi!  Le sue fosche impronte

                                                                                                         Mi ha già stampato il dito della morte

                                                                                                         (Da “Il Trovatore” di Verdi)

 

 

Giunse l’aurora. Mi sorprese un albore senza orizzonte, indefinito, confuso tra il giorno e la notte.

Ero a Trieste, ma avrei potuto essere altrove…ovunque…in un luogo qualsiasi.

Pochi metri di pietre lastricali non erano indizio sufficiente per individuarne il paese.

Intorno a me dominava la nebbia e la luce sfumata dei lampioni illuminava i contorni impalliditi della città che si svegliava pigramente, ancora indugiando, nel letargo della notte.

     Il freddo frustava la pelle, s’insinuava pungente nelle ossa, invadendo tutto il corpo che si contraeva alle sferzate più gelide mentre un sole esitante abbozzava infruttuosa, pavida lotta contro la caligine. Si presagiva una impari contesa: la bruma stagnava tenace ed incombente, i deboli raggi la defloravano appena, creando uno spettro di colori variegati ed evanescenti, un pallido riverbero smorzato.

     Il mare non c’era… Occultato alla vista, si presentiva però dallo sciabordio dei flutti frangenti sull’approdo ed io acchiocciolato sul molo Audace ne inspiravo gli effluvi.

   Ero lì inerme e pensoso a contemplare il nulla evocando con nostalgia altre essenze odorose di mare a me caro, il mare del sud-est e logorando in mestizia le ultime ore d’insonnia trascorse all’addiaccio. Rumori cari a chi è solo mi giungevano a tratti indistinti, poi, sempre più nitidi.  Erano i fragori della città che si svegliava dal torpore e riprendeva lentamente il normale dinamismo.

     Sopraffatto dalla stanchezza e vinto dal sonno, risolsi ad andarmene.

     I rintocchi dell’orologio di piazza Dell’Unità risuonavano nell’aria con morbido rumore e si diffondevano soffusi nello spazio circostante.

     Scandivano le sette.

Ero sul molo ormai da due ore ed avevo trascorso la notte a girovagare per le vie deserte della città; rimuginare ancora sulla mia condizione non leniva le mie pene e non mi arrecava conforto.

     M’incamminai con andatura greve in preda ad un dilaniante tormento; la mente offuscata dall’insonnia era domata da un’idea già consolidata che fustigava il mio animo.

Ombre indistinte, vaghi contorni delineavano la passerella di Ponte Rosso e le barche dei pescatori ormeggiate al riparo, dondolavano mosse dalla leggera corrente che s’infilava nel canale.

Ero immerso in uno scenario irreale, come tra nuvole bigie di una notte senza luna, e la basilica ortodossa, appena tratteggiata nel suo imponente disegno, si mostrava più grigia del solito,

Percorrendo quel tratto di strada con la tristezza nel cuore finalmente giunsi alla locanda Delfino: un residuo, resistente, avanzo del centro storico.

La pensione si trovava in un augusto palazzo a cui si accedeva attraverso un enorme portone sovrastato da cariatidi terrificanti e da maschere tragiche in pietra dalle inquietanti espressioni.

 

 

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