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   Quel paesaggio era un invito all’amore e noi rapiti, contemplavamo quel quadro dipinto dalla natura, scambiandoci sguardi compiacenti e complici, preludio di tenerezze amorose che quell’atmosfera idilliaca rendeva cariche di sensualità.

Nell’intricato confondersi del passato e del presente il mio pensiero vagava per quei luoghi che rivedevo col rinnovato rimpianto di non avere al mio fianco colei che aveva condiviso con me, per anni, le delizie del mio animo.

   Mi mancavano la sua freschezza, la sua capacità di stupirsi, di rallegrarsi con l’entusiasmo di un bambino e l’abbandono di chi si consegna al dominio dei sentimenti.

   Le impronte lasciate nella mia coscienza e rievocate dalla memoria erano tracce superstiti di una felicità ormai svanita nel gorgo di una realtà che mi rifiutavo di accettare.

   Eppure erano trascorsi diversi anni, da quando lei era andata via.

   Nella sua reviviscenza, la memoria si nutriva di altre immagini di luoghi a me cari.

   Il laghetto di Percedol, dove i raggi del sole filtrano tra la folta vegetazione descrivendo giochi di luce iridescente e il gracchiare delle rane si unisce in concerto allo starnazzare delle oche selvatiche e allo sfrigolare delle salamandre maculose tra lo sterpame, fu il luogo dell’ultima passeggiata di Liliana.

   Il suo desiderio di restare a godere della serena atmosfera del posto, benché avesse di già difficoltà a camminare, ritardò il nostro rientro in città.

   Uguali sensazioni si ridestarono in me nel rivedere la Sella della Bora che mi aveva regalato l’immagine di lei abbandonata al gioco del vento che le faceva svolazzare il vestito, mettendo in evidenza le meravigliose forme del suo corpo mentre i suoi capelli scompigliati me la rendevano ancora più bella.

   E il Cippo Comici, l’osmiza di Pepi, dove mangiavamo prosciutto e formaggio, al termine di una scarpinata.

    I fiori della valle, col tripudio dei loro colori, mi fecero ritornare alla mente quanto lei le amasse quelle piante.

    Ricordai quella volta che consultando una guida botanica, indicandole una ad una, enunciavo il loro nome: le Ginestre odorose, l’Anemone Nemorosa, la Cordali Cava, la Pulsatilla Montana, il Geranio di San Roberto.

    Lei seguiva con molto interesse le mie esposizioni e forse fu quella l’immagine che le si presentò davanti quando, prima di morire, esclamò: - Guarda, guarda quanti fiori!

    La visione di quei paesaggi veniva trasfigurata in me da una vaga tristezza e da una stringente inquietudine, entrambe contornate da un ricordo che attraversava il perimetro del dolore.

 

 

 

 

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Credo che l'art. "L'Italia è una repubblica fondata sul lavoro" sia stato scritto il 1° aprile 48, ma pubblicato sulla Gazzetta un mese dopo... (C.Sias)
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