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Scritto da Cristiano Sias. Pubblicato in Prosa il 13 Lug 2020.
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Un matrimonio è sicuramente una tappa fondamentale dell'esistenza che separa il passato dal futuro e allo stesso tempo li unisce. Quello di una figlia è per un padre molto di più, il momento più importante della sua vita. Non è solo un gioioso e sofferto passaggio di testimone, ma il recupero di una paternità e di un ruolo in cui simbolo e realtà si fondono in una sfera di sogno, embrione di una nuova famiglia, che più che la continuazione della propria o del proprio nome si apre nella speranza di mille possibili ramificazioni delle quali si perderà il controllo, affidandone il senso solo a Dio o alle leggi della natura a seconda del proprio credo.
Parliamo di un momento così positivamente traumatico che equivale come intensità forse solo a quello della morte, di cui si dice che si riveda in pochi istanti tutta la propria esistenza come in un film; solo che invece di pochi istanti prima del buio qui il recupero di se stessi resta tangibile nella coscienza e ci accompagnerà per il resto dei giorni. Così può capitare di ritrovare negli angoli della mente, sotto una luce meno negativa, fatti e episodi che si credeva di aver cancellato, magari per necessità di sopravvivenza. Nel mio caso, il "film" ha ritrovato la sua giusta collocazione.

Lo ricordo come fosse oggi. Vent'anni fa, poco tempo prima di morire, mio padre mi chiamò in disparte, come non aveva mai fatto, in quella nuova camera che era diventata ormai lo studio di una volta e tutto il suo mondo; sì, in verità era già successo: mi invitava a sedere accanto a lui, sulle due poltroncine anni 60 finto Luigi-non-so-che, davanti alla scrivania di lato alla porta-finestra, poi mi offriva una delle muratti dal portasigarette di radica e fumavamo in silenzio, guardando davanti, come se lui cercasse delle parole che non riusciva a pronunciare e io temessi un altro muro se avessi rischiato un argomento un po' più "delicato". Si capiva che aveva voglia di stare con me, però finiva sempre per dire le solite cose: "come va il lavoro", "come sta la famiglia", "la salute", "come sei dimagrito"...ogni volta ero dimagrito, fosse stato vero oggi sarei invisibile, ma quella volta no, quel giorno fu diverso, mi guardò negli occhi offrendomi la solita muratti e disse: "Forse abbiamo sbagliato qualcosa con te". Disse proprio così, "abbiamo sbagliato" e non "ho sbagliato". Lo guardai, quasi sorpreso, non aveva mai affrontato con me un tale argomento. Sentimenti, dubbi, confronto? Era roba per gente debole. Mio padre non mi ha mai detto in vita sua "ti voglio bene" e dopo la morte di mamma non ricordo nessuno della famiglia che me l'abbia detto, quindi sentire quell'uomo che quasi a 90 anni aveva un dubbio simile e l'esigenza di comunicarmelo mi colpì non poco, con un brivido di piacere. Compresi subito a cosa si riferiva.
"Avete sbagliato? - risposi - No, non avete sbagliato, è nella vostra natura, io provavo a comunicare le mie gioie e i malesseri e voi avete sempre pensato che ci fossero cose ch'era meglio non dire. Non ho mai compreso quelle chiusure, quegli ostacoli invisibili. L'unica che parlava era mamma, voi vedevate le sue lacrime e io ascoltavo le sue parole. Mancata lei, fu il silenzio, e non poteva certo essere il più piccolo, l'incapace e il ribelle della famiglia, a infrangerlo. Forse non sono riuscito a farvi capire ch'ero come lei, ch'ero diverso. Forse ho sbagliato io, ma davvero non potevo accettarlo e voi non potevate capirlo".
Mamma aveva la terza elementare, era una piccola e fine Grazia Deledda di una cultura matriarcale in cui il fratello con due lauree dirigeva la più grande società areospaziale d'Italia e la sorella faceva da collante di famiglia e tradizioni, fra dolci, tegami, cucina, amministrazione e governo della casa. Eppure per i paesani eravamo "signori", quelli della fabbrica sommersa, dell'azienda elettrica rubata dallo stato, dei terreni a mezzadrìa, che mettevano la cravatta a messa anche ai figli di 10 anni, mentre gli altri avevano la camicia bianca con l'ultimo bottone aperto. Gli zii e i cugini erano tutti consoli, vescovi, generali, giudici o primari e le zie e cugine al massimo madre superiora. Mariti e mogli non facevano eccezione e la grande casa era lo scrigno della saggezza e sapienza popolare. Ricordo ancora le sue parole pacate: "Non è mai sbagliato esprimere la propria opinione e cercare di comunicare con tutti, quello che si sbaglia spesso è il modo".
Sono passati troppi anni da quella mia decisione di partire, chi può dire come sarebbe andata con un altro "modo" o se avessi combattuto un po' di più; avrei forse gioito e sofferto meno, invece di peregrinare per il mondo, per arrivare in un luogo dove - come dissi a un amico che ne chiedeva il motivo - una persona con una cultura appena - appena - più che sufficiente come me e troppi cambiamenti alle spalle può solo trovare quello che forse cercava da tempo: solitudine e isolamento. Ora tento almeno di trasmettere ai miei figli l'importanza di lottare, imparare, conoscere, parlarsi e dirsi "ti voglio bene". Ci sono momenti in cui mi accorgo di quanto sia difficile, forse l'impresa più dura nella quale mi sia cimentato, e anch'io ho i miei periodi di sconforto, allora ripenso a mio padre, a quando ero un ragazzo incapace e ribelle, consapevole che sia allora sia oggi gli risponderei ancora nell'identica maniera di quel giorno di inizio millennio: "Sono diverso. Non posso accettarlo".
Non potevo né posso accettarlo dai miei parenti più stretti, quindi figuriamoci se posso accettarlo adesso da voi, ora che l'esperienza e la maturità lasciano lentamente il posto ai passi felpati della vecchiaia, serena e intensa come il mio amore per questa vita così meravigliosa; l'eve capì ben, face 'd tòla?
tongue-out


Cristiano Sias

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