Scritto da Antonio Balia. Pubblicato in Prosa il 14 Giu 2019.
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Dedico parte del tempo libero a caccia e pesca subacquea: la prima nelle campagne della Barbagia, l'altra nei litorali della costa nord orientale della Sardegna; Orosei - Budoni.
All'interno della seconda isola del mediterraneo c’è una zona particolarmente vasta e impervia denominata Barbagia, nella quale sono situati anche alcuni centri più o meno abitati come Nuoro, Orune, Oliena, Oniferi, Orani, Sarule, Ollolai, Gavoi, Ovodda, Teti, Tiana, Lodine, Fonni, Orgosolo e Mamoiada.
Come in gran parte dell’Europa anche a Mamoiada pioggia e freddo caratterizzano questo secondo fine settimana di gennaio duemila.
Tra il fumo del caminetto, delle sigarette, e accompagnati dall'odore e sapore del vino, con gli altri compagni sono nella sezione dei cacciatori dove ogni sabato sera ci riuniamo per organizzare la giornata di caccia grossa dell’indomani.
Con gli abiti impregnati di fumo, qualche bicchiere di buon vino rosso in corpo e col programma di partenza definito per l’indomani alle sei meno un quarto, alle undici e mezza rientro a casa.
Alle cinque del mattino l’antipatico suono della sveglia mi distoglie dal sonno, e ancora mezzo addormentato, per non svegliare mia moglie percorro al buio i tre o quattro metri che mi separano dall'accensione della luce del corridoio che silenziosamente mi guida verso il bagno.
Al termine dei lavaggi rientro in camera da letto, sfilo i pantaloni del pigiama e indosso un indumento leggero e aderente, tipo canadese; a questo segue la vestizione di un grosso paio di calzettoni in lana di pecora sarda che sollevo fino quasi al ginocchio. Sono calze particolari, acquistate oltre quindici anni fa a Villanova Strisaili, piccolo paese dell’Ogliastra.
Di buon spessore e lavorate interamente a mano da una signora del luogo dove sono abitualmente utilizzate dai pastori locali; non sorprenda quindi il fatto che dopo oltre quindici anni possa averle ancora disponibili, ma sono indumenti che indosso per la caccia e nei giorni di freddo, pioggia o neve.
Concludo velocemente la vestizione indossando camicia e pantaloni invernali, mentre un grosso paio di scarponi devo calzarli in cucina per evitare di fare rumore e non ritrovarmi poi colpito in testa dalla solita ciabatta volante lanciata dall'eventuale sonnambula della casa.
Mi organizzo il caffè e nell'attesa dell’uscita preparo lo zaino con le varie mercanzie culinarie adatte al clima e al sottoscritto, quindi: pane carasau, formaggio, olive, salsicce, polenta e mai dimenticando, naturalmente, la classica bottiglia del buon vino rosso prodotto dal vitigno sito in località Sa Lahana.
Rinfrancato dal buon caffè, é dall’insolito nascondiglio che prendo la chiave del mobile armeria per il caldo berretto a visiera che si piega ben sotto le orecchie, la cartucciera che tengo sempre piena e dopo averla ben chiusa intorno alla vita indosso anche un impermeabile incerato per proteggermi oltre che dal freddo, anche da eventuali nuove piogge.
Alle sei meno venti termino l’operazione armeria prendendo il fucile semiautomatico Benelli, così che ben zavorrato anche da scarponi, cartucciera e arma scendo in garage per l’appuntamento prefissato in sezione, ed essere lì per le sei meno un quarto.
È ancora buio quando con una fila di auto composta da una quindicina di veicoli di vario genere e carichi di persone e cani ci dirigiamo verso Fonni.
Percorsi cinque chilometri in continua salita imbocchiamo una strada di penetrazione agraria che si collega col territorio di Orgosolo.
Dopo altri cinque chilometri della nuova ci fermiamo nella zona che fa capo alla battuta del monte Lenardeddu, e cercando di non fare baccano aspettiamo l’alba per togliere i cani dall'interno dei carrelli e cofani delle auto, e così dirigerci silenziosamente a piedi verso la zona stabilita per la battuta di caccia grossa dove si presume possa aver dimorato qualcuno dei tanti cinghiali che normalmente vagano da alcuni giorni.
Siamo sedici cacciatori che ci disponiamo a semicerchio per chiudere i possibili percorsi della selvaggina, mentre gli otto battitori si allineano con i cani dalla parte opposta per affrontare la prima battuta che si erge nella parte alta della collina dalla quale si può ammirare il paesaggio sottostante ricoperto di lecci, querce e corbezzoli.
Il cielo è ancora minacciosamente ricoperto di nubi mentre nella parte alta del monte che si aggira intorno ai mille metri il clima é piuttosto freddo.
Il continuo latrare dei cani rompe il silenzio della zona, e quando ai battitori giunge il segnale di scioglierli per l’inizio, al loro abbaiare si aggiungono anche le rumorose incitazioni dei ragazzi, in battuta resa difficile dalla persistente pioggia notturna che ha bagnato la folta vegetazione creandogli quindi problemi. Ed è quasi l’una quando alla fine della terza decidiamo di chiudere la mattinata senza scovare un cinghiale.
All'ora di pranzo ci sistemiamo all'interno della boscaglia che costeggia il santuario di Antonia Mesina: giovane ragazza di Orgosolo assassinata a colpi di pietra da un compaesano che cercava di usarle violenza, senza riuscirci.
Ed é qui che con sterpaglie e dei grossi rami ci organizziamo due grandi falò per asciugarci e sederci tranquillamente a mangiare le pietanze contenute nelle borse, zaini, bisacce e quant'altro disponibile per l’occasione.
L’ora del pranzo, naturalmente accompagnato al nostro buon vino diventa anche un momento di discussione e indagine sulla mattinata appena trascorsa, ed utile per l’organizzazione delle battute pomeridiane.
Chiudiamo col caffè e un bicchierino di acquavite prima di spostarci per prendere posizione sulla quarta battuta della giornata che si trova accanto al luogo dove abbiamo appena terminato di pranzare.
Qui il capocaccia mi da in consegna una posta direttamente nella strada asfaltata che dalle campagne di Mamoiada porta a Orgosolo; ed é anche talmente lunga che se i cani dovessero scovare qualche preda dovrò poi fare il possibile per riuscire a coprirla costantemente, e devo perciò tenermi pronto a eventuali corse verso la parte alta della collina.
Resto infatti a valle per il collegamento alla posta che mi affianca con la possibilità di coprire al meglio la zona dove maggiormente potrebbero uscirne i cinghiali.
Dalla liberazione dei cani non passano dieci minuti che li sentiamo abbaiare in due punti diversi della battuta; dovrebbero aver scovato ed occorre quindi stare allerta.
Resto ben concentrato e mi rendo conto che la direzione dei cani percorre la sommità della collina all'inseguimento di selvaggina. Mi muovo perciò velocemente per riuscire a raggiungerla, colpirla o bloccare i cani prima dell’attraversamento della strada, dove altrimenti si inoltrerebbero nella boscaglia sottostante col rischio di venire poi bloccati da qualche malintenzionato che potrebbe rubarceli.
Finisco di percorrere velocemente quel lungo tratto e sento che l’abbaiare dei cani cambia direzione per tagliare a metà della battuta e scendere verso la posizione iniziale. Sono perciò nuovamente costretto a rifare di corsa quel tratto di strada.
Vi giungo dopo due o tre minuti, mentre i cani stanno sempre abbaiando nella parte centrale e non hanno intenzione di sfogare verso la mia posta; comincio quindi a pensare che non abbiano scovato cinghiali ma qualche lepre o volpe, costringendoli a zigzagare incessantemente nella fitta boscaglia.
Da quando sono giunto alla prima postazione non passano più di cinque minuti che di nuovo i cani risalgono abbaiando verso il colle, e perciò mi ritrovo costretto a riprendere verso l’alto per giungervi stremato e col fiatone, dovuto anche all'impedimento motorio causato dagli abiti invernali e dal peso della cartucciera e del fucile.
Attendo ancora in trepidazione per l’uscita della selvaggina, che non fuoriesce, e mi sembra che ora i cani si stiano addirittura dirigendo verso la parte centrale.
Sono venti anni che vado a caccia e non ho mai avuto una postazione così dura da coprire; e non faccio in tempo a terminare con le mie silenziose considerazioni che devo nuovamente ridiscendere correndo verso valle.
In questo passaggio ho anche il sentore che quando poggio il piede a terra la cartilagine del ginocchio non funga più da ammortizzatore poiché sento cadere pesantemente il peso del mio corpo all'interno delle stesse.
Quando riprendo la posizione iniziale sono sfinito, respiro pesantemente e la tosse sale dai polmoni per sfiancarmi ancora di più. Comunque sempre molto occupato alla tenuta della posta che anche ora mi si rivela inconsistente dato che l’abbaiare dei cani ha nuovamente cambiato direzione per riprendere verso l’alto e farmi risalire arrancando sulla cima e di nuovo barcollante verso giù.
Sono stordito, dal torace s’innalzano dei conati che mi chiudono la gola facendo presupporre l’uscita del vomito. Respiro con difficoltà e mi piego per lo sforzo dovuto all'ostruzione delle vie respiratorie che pensavo leggermente intasate di vomito e che invece mi portano a sputare una infinita quantità di saliva.
Mi ritrovo a dover affrontare una situazione terribilmente complessa con la sensazione che l’incessante correre verso l’alto e di nuovo a valle si stia rivelando addirittura devastante.
E’ dopo un’ora interminabile di sofferenza, con i cani che ascolto abbaiando mentre si allontanano dall'altra parte della battuta per uscirne dove non dovrebbe esserci copertura di poste, che per me quindi comporta, finalmente, il termine della pena; mentre le poste dell’altro versante hanno preso un coniglio e due volpi.
Dopo il breve riposo dovuto al tempo che normalmente si impiega per l’organizzazione della successiva battuta mi sento nuovamente in grado di riprendere, per chiudere la giornata senza particolari problemi fisici eperò anche senza cinghiali.
Si torna in sezione, si beve, si discute sulla giornata e si giunge all'ora della cena che consumo velocemente; e comunque soddisfatto dall'avventura trascorsa faccio ritorno a casa, entro in doccia ed esco dopo dieci minuti di getto di acqua calda e refrigerante che mi libera da impurità di campagna e odori della sezione, per poi infilarmi finalmente nel letto.
Ed è per lo squillare insistente dell’orologio che dopo una continua e bella dormita mi sveglio alle sette e qualche minuto; e ancora qualche altro minuto ci metto per potermi svegliare completamente e sedermi sul bordo del letto.
Mi alzo per andare in bagno e sento un forte dolore a entrambe le ginocchia che faccio addirittura fatica a restare in piedi. Dolore che subito collego alla durissima giornata di caccia quando incredibilmente stanco continuavo a salire e scendere nella posta. Mi muovo a fatica, il dolore é lancinante ed in uguale misura lo sento localizzato all'interno delle ginocchia dove si sarà sicuramente rotta la cartilagine.
Non sono in condizioni di lavorare e quindi decido di recarmi dal medico che mi fa la prescrizione per la visita specialistica all'ospedale di Nuoro.
Non mi fanno visite radiologiche ma solo prescritte delle punture, a pagamento, di particolari infiltrazioni associate a degli antidolorifici. Passano i primi tre mesi e nonostante le cure i dolori non cessano ma si intensificano.
Mi rivolgo quindi al dottor Zanetti, dell’ospedale di Ozieri, esperto in interventi meniscali e con un ambulatorio privato anche a Nuoro.
E ancora soldi per le visite e punture per infiltrazioni, senza che la situazione migliori; finché non decide per le visite radiologiche, lastre e risonanze magnetiche al ginocchio destro, all'interno del quale sento più dolore.
I dati corrispondono alle impressioni dell’inizio dell’anno, rottura della cartilagine meniscale che richiede l’intervento chirurgico per l’asportazione, da effettuarsi tra un mese, quindi a metà giugno all'ospedale di Ozieri.
Alla data prescritta ci svegliamo di buonora ed alle sei siamo in ospedale per una lunga attesa che si protrae fino alle undici, e non essendo mai entrato in una sala operatoria sono quindi in apprensione.
Anche quando mi sdraio sul lettino che mi porterà all'ascensore per scendere di alcuni piani verso un locale austero e freddo dove sono subito circondato da alcune infermiere e due medici; uno dei quali è lo stesso Zanetti che in un baleno mi disinfetta la gamba e con una grossa siringa punge in diversi punti nell'intorno del ginocchio per anestetizzarlo e intervenire per la rimozione della cartilagine.
Mentre attendo l’effetto dell’anestetico resto sdraiato a osservare il personale, vestito di verde, con pantaloni, giacca corta, guanti, mascherina e berretto: le infermiere; pantaloni, giaccone lungo e leggero, guanti, mascherina e berretto i due medici.
Tutti comunque impegnati nella migliore disposizione del materiale occorrente ad affrontare l’intervento nelle varie, eventuali manifestazioni.
Dopo alcuni minuti mi fanno sapere che grazie a una piccola telecamera inserita all'estremità del bisturi posso seguire l’intervento in un piccolo schermo che sta alla mia sinistra.
E mentre mi parla sento le sue mani che mi premono nella parte inferiore del ginocchio, insieme a un grosso peso, come di un corpo metallico che in due punti mi lacera la carne, mentre le infermiere si preoccupano di tenermi la gamba in posizione leggermente piegata.
Restando così per vari minuti dopo i quali le stesse infermiere, su cenno del medico cambiano la posizione della gamba tenendola con forza in tira verso l’esterno destro del mio corpo, per agevolarne sicuramente l’intervento del medico, ma nello stesso tempo provocandomi anche un forte dolore alla zona femorale.
Restando così per diversi minuti, con il medico che sulla base dei dati dello schermo preme il bisturi verso l’interno del ginocchio e lo sposta.
Per la sofferenza, che non immaginavo, mi lamento. Ma è lo stesso dottor Zanetti a rispondermi che non può fare diversamente, altrimenti non potrebbe riuscire nell'intervento ed in futuro riemergerebbero conseguenze con la necessità di rientrare in camera operatoria.
Sono fuso quando dopo oltre un’ora mi siedono su una carrozzina e accompagnato da una infermiera risalgo verso la sala d’attesa dove attende mia moglie con le stampelle che subito utilizzo a sostenermi per avviarci quindi lentamente verso l’uscita, salire in auto e rientrare a Mamoiada.
Sono trascorsi appena due mesi dall'intervento alla gamba destra quando ricevo l’avviso di presentarmi nuovamente al medico dell’ospedale di Ozieri per l’asportazione della cartilagine del ginocchio sinistro.
Dalla sconfortante esperienza del primo decido quindi per la puntura spinale e farmi così anestetizzare l’intera gamba per non sentire i forti dolori accusati nel primo, anche se la scelta mi costringe al ricovero cautelativo di due giorni utili per lo smaltimento dell’anestesia.
Dopo la nuova e snervante attesa riprendo l’ascensore, e giunto in quelli che sembrano degli scantinati, per la spinale mi fanno entrare in un’altra stanza dalla quale ne fuoriesco quasi subito per attendere nel corridoio che si liberi la sala da un altro intervento che si sta concludendo.
Giusto il tempo necessario all'inizio dell’effetto del medicinale e mi fanno quindi rientrare nella sala operatoria dove ricevo le solite indicazioni sullo schermo e altre varie, che penso non servano ad altro se non a distrarmi dalla tensione che sicuramente leggono nel mio viso.
Appena sento il bisturi penetrare nella carne mi rendo conto di aver fatto la scelta giusta; con l’anestesia della gamba non sento infatti nessun dolore, e nell'insieme dell’intervento mi trovo quindi meglio di come sono stato nel primo.
E tranquillo mi ritrovo anche quando mi risiedono nella carrozzina per accompagnarmi nel lettino della camera, dove con mia moglie discutiamo appunto della serenità con la quale ho trascorso l’intervento.
Aiutandomi con le stampelle la sera del giorno dopo esco dalla stanza e vado nell'ufficio per chiedere se l’indomani mattina sono veramente di uscita; l’infermiera controlla velocemente la cartella e mi conferma le dimissioni.
Torno lentamente in camera e fatti alcuni passi sento che nella parte posteriore interna del collo s’innalza verso la testa qualcosa di strano che sento distribuirsi anche su tutto il cuoio capelluto.
È una sensazione mai vissuta prima d’ora, sia in stranezza che potenza, e quando mi chino per sistemarmi nel letto mi rendo conto che si ferma scomparendo anche l’effetto. Mi sdraio e riprende, mi piego e sparisce, mi alzo diritto e la risento. Sono seriamente preoccupato!
Avviso subito il paziente vicino che chiama il medico al quale spiego l’effetto, così che mi consiglia di restare piegato mentre loro provvedono a prepararmi uno strano letto in forte pendenza e con il cuscino nella parte bassa, dalla quale intuisco di dovermi sdraiare a testa in giù.
Così mi viene infatti indicato di restare per sette giorni. E dopo due giornate trascorse in quello strano modo una dottoressa finalmente mi spiega che nella puntura spinale l’ago é entrato oltre il dovuto e l’anestetico potrebbe aver raggiunto il canale midollare per salire fino alla testa, con gli strani effetti conseguenti.
Rilevo chiaramente che anche la ponderata scelta di farmi anestetizzare completamente l’arto si è rivelata comunque rischiosa, e solo dopo dieci lunghissimi giorni e con le indicazioni sulla cura da seguire a casa ho potuto lasciare l’ospedale. Dopo un mese riprendo il secondo ciclo riabilitativo degli arti, che sento lentamente migliorare.
Ma stanco dell’interminabile situazione che da metà gennaio mi sta così costringendo, il diciassette settembre decido di riprendere a lavorare.
Il primo giorno mi sento dei forti dolori alle gambe e alla schiena che attribuisco alla particolare condizione sanitaria vissuta nei mesi scorsi; per non sforzare mi occupo quindi dei lavori più leggeri.
Proseguo così per una intera settimana ma i dolori si vanno sempre più intensificando fino a costringermi nuovamente al riposo medico, che per la sintomatologia mi prescrive controlli specialistici alla colonna vertebrale, perché, mi dice: i forti dolori alla schiena e alle gambe non possono in alcun modo dipendere dagli interventi meniscali!
E di nuovo radiografie, tac e risonanze magnetiche caratterizzano le giornate con risultati che danno il giusto senso alle nuove manifestazioni dolorose, con i fotogrammi che dimostrano due ernie discali e un’altra in formazione, insieme a uno scivolamento vertebrale in L5-S1 denominato Spondilolistesi: causa principale dei permanenti, forti dolori. ...
Antonio Balia
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