L’ultima ora di Archidamo

Il primo agosto del 338 a.C. a Cheronea, in Beozia, re Filippo II Macedone riportava una schiacciante vittoria contro l’esercito alleato formato da Atene, da Tebe e da alcune poleis minori.

Nello stesso giorno nella piana di Manduria, in Messapia, a ridosso della seconda cinta megalitica e del vallo foraneo, il re lacedemone Archidamo III, figlio di Agesilao della dinastia reale Euripontidi, giaceva sul campo di battaglia ferito mortalmente.

Era giunta la fine di una guerra durata cinque anni tra la colonia spartana di Taranto e la lega Messapica alleata con i Lucani.

Il contrasto era sorto a seguito delle ripetute razzie tarantine, attuate per l’approvvigionamento dei cavalli[1] e di manodopera servile in terra Messapica.

I tarantini, sicuri della vittoria, si erano trovati a lottare, invece, con un nemico indomito e combattivo, il popolo

...Messapo, domatore di cavalli.

che nessuno né col ferro né col fuoco può abbattere.[2]

 

Taranto, costretta dalla pressione dei suoi nemici, aveva chiesto aiuto a Sparta e a diversi condottieri stranieri.

Archidamo era giunto in Italia con una flotta e un esercito. Sbarcato sulle coste Joniche, aveva assunto il comando delle truppe, ponendosi alla guida degli optiliti e della cavalleria tarantina.

Il re spartano, eroico guerriero, si era battuto con grande valore militare ma ora provava il dolore della sconfitta e dell’approssimarsi della morte.

Il lacedemone era stato trafitto alla gola[3] e un fiotto di sangue aveva macchiato il candido chitone[4] mescolandosi col rosso del prezioso tribone[5]. La corazza di bronzo gli opprimeva il petto ansimante e nel pugno della mano destra egli stringeva la regale xiphos[6].

A breve distanza dal moribondo giacevano derelitti e impolverati il regale Kranos[7], corinzio, e il suo oplon[8] su cui era dipinta la lettera lamda, riferimento al primo nome della città Lacedemone.

Lo sguardo rivolto al cielo, la testa tra lo strame, sul volto contornato da una fluente capigliatura[9] e da una barba lunga e riccioluta[10], Archidamo aveva dipinta l’espressione sofferente, ma altera, del soldato morente.

Rivedeva tra i nugoli della polvere sollevati dalle fanterie, l’effige dorata del Leone ruggente dipinto sullo scudo messapico del soldato che lo aveva colpito dopo arduo e strenuo combattimento.

Tra gli spasimi laceranti, provocati dalla ferita, la sua mente si affollava di ricordi ed egli meditava sul suo passato.

Si rivedeva ragazzo nell’Agelaia[11] dove, al pari dei suoi coetanei si era addestrato a resistere alle difficoltà della vita sottoponendosi a severa disciplina fisica e di lavoro.

Lì gli era stato imposto di camminare a piedi nudi e di indossare un cappotto sia d’estate che d’inverno.

Poi a diciotto anni con i ragazzi più promettenti era diventato l’allenatore dei più giovani e dai venti anni ai trenta era passato nella caserma della milizia (sissizi) alla quale erano assegnati i soldati.

Ora gli ultimi fragori della battaglia, che si consumavano fra lo sferragliare delle armi e i lamenti dei feriti, gli facevano rivivere l’esaltazione della vittoria e l’umiliazione della sconfitta; emozioni, queste, che egli aveva provato nella battaglia di Leuttra e nei combattimenti del Peloponneso.

Ricordò ancora la vittoria conseguita contro gli Arcadi e la successiva sconfitta subita a Cromnus e quando a trentatré anni, egli si era distinto nella difesa di Sparta contro il comandante tebano Epaminonda.

Archidamo aveva anche fornito il suo sostegno ai Focesi contro Tebe nella guerra sacra (355 – 346 a.C.) ed era andato a Creta per aiutare la città di Lyttos nella lotta contro Cnosso durante la guerra straniera.

Questi episodi della propria vita si affastellavano nella mente quando sentì il suono dei flauti spartani che dettavano il passo agli optiliti.

Chissà- pensò – se la mia falange non riuscirà a sconfiggere il nemico messapico anche senza la guida del suo re.

Conosceva il valore dei suoi condottieri. Aveva ricevuto l’Agogè[12] e gli avevano insegnato che il soldato spartano vale molti uomini di qualsiasi altro Stato e che egli torna in patria “o con lo scudo o sopra di esso”[13].

La guardia reale costituita da trecento hippeis[14] si era frapposta tra i nemici e il corpo tramortito del proprio re.

«Un Euripontide muore combattendo.» Furono le ultime parole di Archidamo. Cercò di rialzarsi brandendo la xiphos, ma ricadde morto.

Il suo corpo non fu restituito.

E benché nella necropoli di Manduria siano stati eseguiti numerosi scavi archeologici, a tutt’oggi la tomba del re lacedemone non è stata ancora trovata.

 



[1] Mandyrion (Manduria) = Terra di mandria

[2] Virgilio, Eneide

[3] Trafitto alla gola = Non si conosce in realtà dove Archidamo sia stato colpito

[4] Chitone = Tunica

[5] Tribone = Mantello

[6] Xiphos = Corta spada

[7] Kranos = Elmo

[8] Oplon = Scudo di bronzo rotondo

[9] Gli spartani portavano i capelli lunghi a simboleggiare l’uomo libero

[10] I tratti somatici di Archidamo III sono stati rilevati dal busto di Archidamo attribuito ad Archimede (Napoli – Museo Nazionale)

[11] Agelaia = Palestra

[12] Agogè = Tipica educazione spartana

[13] “O con lo scudo o sopra di esso’’ significando che il soldato spartano o torna in patria vittorioso (con lo scudo del nemico quale trofeo) o sopra il suo scudo, morto in battaglia.

[14] Hippeis = Cavalieri, anche se in realtà erano soldati appiedati.  Il ruolo dei cavalieri era per lo più di assistenza, esplorazione, protezione delle truppe, molestia a distanza o persecuzione del nemico durante la fuga.

Riferimenti storico – bibliografici:

Isocrate = Ad Archidamo

Plutarco – Tito Livio-  Plinio il vecchio

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