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Scritto da Carmen Cantatore. Pubblicato in Prosa il 04 Mar 2017.
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Sta immobile innanzi all'altura, lo sguardo è fisso nel vuoto, i capelli sono mossi dal vento.

Rimane a lungo così, v'è l'apparente indecisione di andare. Infine si muove. In principio il sentiero è quasi invisibile tra l'erba folta e  il velo di lacrime ma in seguito, piano piano, s'inerpica tra i massi e diviene evidente, faticoso. Le pietre appaiono consunte dai molti passi che su di esse si sono strusciati. Ad ogni poco un sussulto del cuore, un singulto dell'anima. Un dolore profondo sale alla mente per scendere lungo le membra stanche, arrancanti sull'erta via.

Ancora un passo, l'azzurro intenso del cielo si beffa d'ogni sforzo compiuto nell'avanzare sul sentiero ardito. 

Passo dopo passo risuonano i giorni del distacco, come un susseguirsi immoto di cieche finestre dischiuse sul tenebroso nulla del rancore. Ogni finestra s'apre immane e consolida, gravoso e oscuro come un pozzo inquietante, il  tormento.

Oramai non bastano più le sole gambe, al ripido inclinarsi del suolo occorrono le braccia, le mani che s'aggrappano ad ogni cespuglio e ad ogni folto ciuffo d'erba arroccato tra i massi.

Ancora alcuni passi incerti per la ghiaia che scivola giù, tra le rocce, lungo la scoscesa via percorsa. Nella mente i pensieri succedono ad ogni breve tratto, rimescolando nella tazza dei ricordi incombenti come uno stillicidio di attimi agonizzanti.

Ogni giorno la notte sfuma nell'avida luce d'ogni alba e ogni alba scioglie le ore nella corruzione della notte. Il dolore, costante e sordo, dilata la percezione dell'abbandono.

Un pensiero martellante, breve e acuto come una stilettata: “Non ne posso più.”

Fu il moto d'un tramonto che il pensiero addusse alla mente, prepotente, invadente. Traducendo emozioni e tragiche illazioni. Fermare quell'orrida successione di selvagge percezioni.

In che modo tracimare, terminare?

Ancora la salita tra le mani risolute e sotto i piedi saldi.

I barlumi sopiti nella mente seguono immagini già concertate, un salto nel vuoto senza pensare, lo sguardo fisso di fronte al niente. Avrebbe così interrotto una lunga fila di giorni, di anni, di singhiozzi amari e farsesche rappresentazioni.

Voler scordare.

Voler fermare.

Voler svanire.

Voler morire.

Qualunque cosa pur di non soffrire.

Una domanda riecheggia nell'inconscio ed esplode del continuo nella mente come il tuono d'un fulmine improvviso.

A chi appartiene questa vita?

Quanta debolezza per continuare?

Quanta forza per continuare?

Oppure per fermare?

Che diranno i posteri d'un simile gesto? Coraggio? Vigliaccheria?

Che importanza quando tutto sarà finito?

Ancora un poco, contando i passi, per farsi forza, indursi di finire.

Nel biglietto lasciato nessun dubbio:

“Su... per l'erta costa andrò... rabbrividendo. L'odor del mare, la china, la fatica... infine, l'ermo pensiero... dileguerò esausto... nel silenzioso volo foriero di pace!”

Ecco, la cima aguzza s'apre improvvisa sotto gli ultimi passi, un breve piano e appare tutto l'orizzonte intero, frastagliato dai massi impervi. L'aria rada entra nei polmoni a fatica, nel vento scivola il pensare, rimane il dolore e pure questo sarà breve ormai, ancora poco e quanto, non conta.

A scavar nel profondo s'è trovato il vuoto e nel vuoto il lancio è liberatorio. Le braccia serrate addosso, i piedi in bilico sulla cresta estrema, un altro passo, poi più nulla!

Solo il fischiare del vento intorno!


Carmen Cantatore

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