In una landa desolata e sperduta si ergono le mura del castello medievale dei Marchesi Serravalle - Venturi. Nella campagna circostante imperversa la bufera mentre l’orologio della vecchia torre con dodici tetri, cadenzati rintocchi annuncia l’ora di mezza.

Fulmini saettanti illuminano d’intorno; nell’aria elettrizzata riecheggia il rimbombo dei tuoni, presagio di sinistro terrore, e l’edera barbicata tra le fessure dell’antico maniero s’inerpica avviluppata e intimidita.

Gufi, civette, allocchi e barbagianni, dominatori del buio, abbriccati su merli ghibellini, intonano i loro lugubri versi: Ku – vitt – Ku vitt –Ku vitt, cucumeo – cucumeo – sfru – sfru – sfru, uh –uh- uh- uh, iù- iù- iù e i loro gridi acuti e strascicanti si diffondono con eco nella notte.

Impetuoso sibila il vento tra i frondosi cipressi e tra le siepi intricate nella stretta serrata del loro stormire.

Un bagliore di folgore squarcia il tenebroso salone dell’arcaico palazzo e i mobili antichi che ne fanno l’arredo hanno per un sol attimo definiti contorni.

Il ritratto dell’avo Francesco sghignazza spettrale e gli occhi dell’immota armatura s’accendono di un riverbero luminescente e rossastro.

Il picchiettio della pioggia scrosciante si confonde con lo stridore dei chiavistelli, delle catene del levatoio e col cigolio delle cerniere arrugginite delle porte robuste oscillanti su cardini, da immemore tempo, schiodati.

Il fantasma smanioso di Francesco s’aggira burlone negli augusti locali.

‹‹Che bella nottata›› si dice volteggiando a mezz’aria e sfregando le mani, beffardo.

Egli fugge dalle grinfie dell’ectoplasma della Duchessa Mafalda, indesiderata spasimante che da sempre lo insegue, bramosa d’amore, nei meandri del vetusto palazzo.

Intanto una musica ferale inonda la casa con le note che svolazzano nell’aria, posandosi or qui sulla vecchia corazza col rumore di ferraglia or là sul lungo tavolo della sala da pranzo, col rosicchiare dei tarli voraci, una tra le batterie dei tegami appesi nella vecchia cucina, tremolanti per gli spifferi del vento, l’altra sul gong del fiacco pendolo appeso in soggiorno.

Gli abitanti della maestosa dimora sono a letto ma ricacciano il sonno, pervasi da inenarrabile spavento. Il Marchese nell’immenso talamo nuziale tra drappi e scomposte lenzuola s’avvinghia, per darsi coraggio, alla consorte Leonilde nel tentativo di rinverdire un erotico, vano ricordo ormai spento.

Solo Clotilde, la veterana e fedele governante, zitella, non ha nessuno con cui accucciarsi e distrae il suo terrore ricordando i tempi che furono, quando, amabile fanciulla, era desiderata dallo spasimante, giovane e prestante Francesco.

Ora ad ogni scuotimento s’abbraccia tremante all’enorme cuscino, mentre la sua instabile dentiera tintinna disfatta.

Riecheggia il riso inquietante del fantasma Francesco. Egli ancora s’aggira in preda al suo desiderio d’amore da decenni pendente, da quando morì d’infarto durante un principio d’amplesso con l’allora avvenente Clotilde.

Lo sghignazzo straziante, che l’eco impietosa ripete, si confonde con la musica tetra, strimpellata da strumenti percossi da ignoto e invisibile esecutore.

Ora Francesco attraversa la porta violando l’intimità della camera da letto dell’amata Clotilde e il voglioso fantasma s’insinua non visto tra le incorrotte lenzuola del letto della illibata governante.

Mentre fuori ancora imperversa la bufera, i tuoni scuotono l’aria di rombante rumore, cupo soffia il vento sui merli svettanti al cielo plumbeo e i rapaci notturni intonano il loro triste concerto, s’ode il cigolio del letto dell’anziana domestica.

Ella sente accanto a sé, addosso a sé, sopra di sé un’inquietante presenza.

Riconosce, seppur non visto, il suo amato Francesco. Il suo corpo si scioglie, reagisce, la vecchia ruggine scompare d’incanto e le pulsioni s’impossessano di lei. Sente vibrare le corde del cuore. Ora non è più sola. Prova le gioie dell’amore, si abbandona, si lascia espugnare.

Un fulmine accecante s’introduce indiscreto nel nido d’amore illuminando il corpo sfiancato, sfinito, appagato dell’anziana Clotilde, che felice esclama: ‹‹Però! Sanno amare questi fantasmi.››

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