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Scritto da Gianfranco Pasanisi. Pubblicato in Prosa il 13 Dic 2016.
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Il grillo

Favola

 

 

 

Tra i rovi dalle dolci drupe tonde, il grillo aveva costruito la sua modesta casetta, piccola ma assai accogliente.

Dal carattere timido e schivo, protetto dalle spine della siepe, si ritirava spesso nella tana al primo apparire di estranei indesiderati.

In primavera inspirava il profumo dei fiori bianchi e rosati del rovo, in estate ne gustava i frutti maturi e la zona era ricca delle foglie, dei semi e delle radici di cui era ghiotto.

Non avrebbe potuto desiderare di più.

Da lì usciva la notte e prendendo a prestito la luce delle lucciole, sue vicine di casa, vagabondava per la campagna pugliese, visitando le masserie della zona e dispensando a tutti, animali e persone, le note delle sue serenate.

Avendo studiato “Frinito” al CONSERVATORIO DEGLI ANIMALI DEL SALENTO, insieme alle cicale canterine messapiche, sapeva fare un uso sapiente dell’organo stridulatore, fornendo prova così di grande maestria musicale.

Una sera, si accorse che il suono era stonato: Il suo cri cri era piuttosto uno strano, aspro gracidare che si confondeva col cra cra delle rane.

Decise così di recarsi da Mastro CICALA per farsi dare una regolatina alle tegmine.

Mastro CICALA, che aveva messo su una bella bottega artigiana nel tronco cavo di un secolare albero d’ulivo, aveva fama di essere il migliore accordatore della zona. Sull’uscio del laboratorio, incisa a caratteri cubitali su una tabella di legno, poteva leggersi, infatti, la scritta: “Qui si riparano elitre”.

«Mi dia una controllatina e una buona sistemata allo strumento.» Disse “sconcertato” il grillo.

«Quando friziono tra loro le tegmine» continuò «queste emettono uno strano suono.»

L’artigiano, inforcati gli occhiali da presbite sopra due occhioni, composti e sporgenti, controllò le ali del grillo e con aria professionale, simile a quella di un clinico di provata esperienza, sentenziò: «La questione è seria, le ali a forza di essere strofinate si sono usurate.»

Porgendo al cliente un vasetto contenente una polvere dai mille colori, composta di squame d’ali di farfalla, gli consigliò di cospargersela sulle ali almeno due volte il giorno.

Contento, il grillo ringraziò e se ne tornò cantaiolo alla tana sicuro che la cura ben presto avrebbe mostrato tutta la sua efficacia.

La cosa funzionò: il suo cri cri presto divenne nitido e melodioso e quindi egli poté sfoggiare con soddisfazione il suo repertorio.

In occasione della festa di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, organizzò l’annuale coro della masseria.

Indossato il frac a coda, rigorosamente noir ma un po’ demodé, e lucidate a puntino le antenne, quella sera ostentò un’aria da grande artista.

Accordate per bene le tegmine, diede inizio alla sua esibizione attaccando con un assolo che avrebbe fatto invidia al migliore professore d’orchestra.

Poi accompagnò, dirigendo con grande abilità, lo stridire di Civetta Occhialuta, lo zigare del Grigio Coniglio, il gloglottare del Vanitoso Tacchino e il guaiolare della Volpe Astuta.

Si unirono a quel coro in un entusiastico crescendo l’abbaiare del Cane Pastore, il raglio dell’Asino Martinese e lo starnazzare dell’Oca Nostrana.

Il concerto fu molto apprezzato dal vicinato ed ebbe anche una vasta eco sul “Gazzettino degli insetti” che, per quanto fosse a tiratura locale, era però molto diffuso tra i lettori dei quotidiani del circondario.

Dopo le scorribande notturne, a ogni sorgere dell’alba il grillo rientrava alla sua dimora e prima di rintanarsi per avere il meritato riposo, salutava i vicini di casa che a quell’ora si erano da poco svegliati.

Tra un’esternazione canora e un’altra la vita del simpatico insetto scorreva lieta e spensierata, ma non sempre le cose vanno per il verso giusto.

Un triste giorno, di mattina, rientrando dalle sue serenate, il grillo si rese conto che qualcuno aveva appiccato il fuoco al roveto.

Le fiamme erano ormai alte e indomabili e per quanto avesse tentato, aiutato dai vicini, di gettare acqua sul fuoco non era riuscito a limitare i danni.

La sua tana era completamente distrutta, ridotta a un cumulo di cenere.

Guardando quel triste scenario, sconfortato e avvilito, esclamò: «Povero me.»

Da allora nella zona, quando si vuole esprimere sconforto e autocommiserazione, è in uso dire in perfetto dialetto manduriano:

«Poara a mmei tissi lu triddu quannu fuecu misira allu skrasciali.»

Con ciò volendo significare: Povero me, disse il grillo, quando appiccarono il fuoco al roveto.

La storia però non finisce qui perché dopo i giorni tristi vengono sempre quelli lieti.

La tana del grillo fu ricostruita più bella di prima, in un prato dai bei fiori colorati, con erba fresca e tenera intorno.

Tutto ciò con l’aiuto di solerti vicini e degli animali del coro che vollero manifestare amicizia e comunanza verso il loro canterino compagno.


Gianfranco Pasanisi

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