L’eremita

 

 

 

«Nell’immaginario sono un filosofo misantropo, un pensatore, un uomo che si astrae dalla realtà, dal quotidiano, per vivere in un mondo tutto suo, permeato di saggezza e austerità interiore. Per gli altri la mia solitudine è una scelta di supremazia intellettiva, di superiorità etica, una predilezione per il misticismo e l’ascesi. No! Sono altre le ragioni che mi spingono a vivere in questo luogo misterioso e inquietante, in quest’atmosfera sospesa, in questo borgo che non è più un paese ma solo ruderi scheletrici immersi nella vegetazione spontanea. Qui tutto è morto, trapassato come la vita che in questo luogo era animata dalle voci stridule dei bambini e dai suoi abitanti, mentre ora è immerso nel silenzio, rotto solo dal fruscio delle piante selvatiche e dalle folate del vento. Ogni cosa è squallore e sconforto, desolazione e abbandono. Le stagioni qui scorrono impietose, la primavera non rallegra questo sepolcreto e l’autunno e l’inverno lo rendono ancora più spettrale. In estate la canicola opprimente rinsecchisce in aride piante la vegetazione infestante;  le carcasse delle case si stagliano con le loro asperità rivolte verso il cielo, in un paesaggio irreale, bruciato dal sole. Là ci sono i calanchi con le sterili rotondità o i grinzosi pendii scavati o ammorbiditi nelle forme dalle piogge e dal vento e i secolari ulivi ben barbicati tra terra e sassi.

Qui,  a trecentonovantuno metri dal livello del mare,  consumo le mie giornate tutte uguali, logore come questi avanzi di costruzioni distrutte dalla frana del sessantatre.

Graco, il paese fantasma, è la mia dimora. Tutto di esso mi appartiene. Le rovine, le macerie, i ruderi sono  tracce di una vita sepolta, al pari della mia, sotto crolli distruttori.

La solitudine che vivo in questo luogo disabitato è espiazione, riparazione per le mie colpe, è penitenza e castigo. È   condanna che nessun tribunale mi ha mai inferto ma che infliggo da me con la coscienza e la consapevolezza del male che ho arrecato a me stesso e agli altri.

Graco è il tropo della mia esistenza un tempo tranquilla e serena, travolta da uno smottamento, da uno scivolamento, da un cedimento demolente. In questo borgo antico si propaga un’eco misteriosa che io colgo perché risuona dentro di me, nell’anima, nella coscienza mai acquietata. Sono le voci di dentro, ridondanti di pena, di ammenda.

In questo luogo Gibson ha girato il film "Passion"  e qui io vivo la mia sofferenza.»

 

Così parlò l’eremita e le sue parole scavarono nel profondo della mia sensibilità. Ho avuto il privilegio di incontrarlo durante una visita guidata in Basilicata. Egli abitava in una casupola situata in cima a una fila di scalini dalla defaticante ripidezza. Su quell’erta mi arrampicai da solo, distaccandomi dalla comitiva. Ero stato sospinto in quel luogo da un arcano presentimento, da un misterioso intimo richiamo.

Il personaggio di cui vi ho narrato mi venne incontro come se già mi conoscesse. «L’aspettavo» mi disse. Era un uomo greve, solenne, dalla lunga barba e dai fluenti capelli che scendevano fino all’omero.

Se vi capitasse di visitare Graco e di chiedere sue notizie, nessuno saprebbe fornirvi informazioni su di lui e, ne sono certo, non lo incontrereste mai. Ora non è più là. C’era soltanto quando ci sono stato io. E dei suoi segreti sono l’unico depositario, perché egli li ha rivelati solo a me.

  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0
  • 0