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Scritto da Gianfranco Pasanisi. Pubblicato in Prosa il 05 Ott 2016.
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Amo la natura di questo luogo dove rinfranco lo spirito inquieto tra moltitudini di pensieri, compagni di cercati momenti di solitudine.
M’incammino tra i campi, dalla terra rosso ruggine, demarcati dalle pietre grigiastre e grinzose dei muretti a secco, percorrendo stradoni sterrati e sassosi incorniciati da piantagioni di secolari ulivi dai tronchi contorti e dalle chiome sempreverdi, delimitati da cigli erbosi di asparagina, di tarassaco, di graminacee, da margini invasi da aggrovigliate siepi di rovo, di ginestre, di mirto.
M’immergo, alla fine, nella macchia, a poche decine di metri dal mare.
Ogni stagione ha colori, profumi che percepisco e riconosco come soavi memorie di sempre.
Talvolta lo scirocco mi reca a distanza il mormorio dei marosi che diventa un cupo rullio nel procedere verso la costa e l’aria s’impregna dell’odore di iodio che si rimesta con le fragranze della terra e delle piante selvatiche della flora mediterranea.
Non c’è posto al mondo che a questo sia uguale: qui anche i sentieri hanno i loro effluvi.
Quando le rare piogge ristagnano in chiazze rossicce di fango che rendono tortuoso il percorso o il sole cocente sfarina il selciato, si avverte l’odore umido della mota o l’esalazione della polvere resa fine, come talco, dalla siccità.
Tra il lentisco, il rosmarino e il ginepro, le tarantole, chiazzate di giallo oro e di nero, tessono fili di ragnatele che stille di pioggia o di brina rendono iridescenti.
Dagli arbusti esala una fragranza di muschio, appena percepibile d’estate e più avvertibile nelle stagioni umide.
A volte, allungo l’itinerario delle passeggiate solitarie e sospingo il passo oltre la macchia, laddove tra le dune sabbiose inghirlandate dal verde delle piante selvatiche, si avvistano scorci di mare dalle sfumature azzurre, verdi o cineree, differenti a seconda dei mutamenti del tempo e della direzione dei venti.
Dalla costa, quando il cielo è terso, si possono distinguere le montagne della Calabria emergenti dalla linea dell’orizzonte che, nelle diverse ore del giorno, assumono tinte che variano dal celeste al rosso fuoco.
Il sorgere del giorno ha le stesse venature del tramonto e le case sparse, bianche di calce, ancora abbigliate con la veste della notte, si screziano di grigio e di rosa, per tingersi, lentamente, di acceso vermiglio. Poi, si maritano col sole alto e vestono il consueto abito di abbacinante candore.

Quel cammino m’è caro e lo rivedo, ogni volta, con gli occhi e le emozioni del passato. Ricordi della giovinezza trascorsa, scrutati nel presente, sono custoditi in un caseggiato attorniato da un giardino poco curato che un tempo era tripudio di fiori e di piante e che ora è un groviglio di sterpi.
Là ho consumato un frammento di vita e, in quel recesso di mondo, ho vissuto una storia che ha modulato l’esistenza.
Ferite, in parte rimarginate dal fluire del tempo ma presenti nella memoria, rinnovano le nostalgie di un’età che fu, rimpianti impetuosi che fustigano l’anima, che rodono, con l’assillo, il pensiero.
Rivedo il volto di Marisa, la sua figura di diciassettenne, e ritrovo me stesso diciottenne.

Percorrendo i sentieri rurali delle mie solitarie passeggiate mi imbattevo nella ragazza, quasi ogni giorno, e i nostri incontri divennero presto una irrinunciabile abitudine. 
Ella mi aspettava all'accesso di un lungo stradone delimitato da conci di tufo, nei pressi di due colonne scrostate sulle quali era incardinato un vecchio cancello rugginoso, in rovina. 
Stringeva ogni volta, in una mano, un mazzo di fiori colti nel suo giardino e scegliendone uno me l’offriva senza dir niente, con un gesto divenuto, col tempo, consueto. Abbozzava un sorriso carico di desiderio e, nel porgermi quel dono, accostava una guancia alle mie labbra, nell'attesa di un bacio che delicatamente le concedevo.
Quando la scorgevo da lontano, acceleravo il passo, esaltato dall'imminente incontro e, avvicinandomi a lei, ne osservavo la sottile figura ornata dai colori delle piante che facevano da cornice al paesaggio.
Poi giunse il tempo del distacco. 
Gli eventi della vita avrebbero separato presto le nostre strade. Ci incontrammo per l’ultima volta una sera d’estate. 
La campagna, al chiarore discreto della luna, rifulgeva di un bianco lucente.
L’evaporazione della natura, abbronzata dalla canicola del giorno, l’esalazione dell’erba secca radicata nelle screpolature del suolo, attraverso i miei sensi, colmavano, di serenità e pace, il mio spirito dissidente.
Le chiome inargentate degli ulivi, ondeggianti al venticello di sud est, sussurravano appena il loro stormire e il silenzio incantato di quella notte d’agosto poetava col verso dei grilli e col mormorio lamentoso del mare che giungeva ondivago all'udito. Le rocce affioranti dall'arida terra erano venate dalla luce argentea della luna e delle stelle e dalle ombre grigie delle ore notturne.
Nell'atmosfera quasi irreale di quel posto si consumò il nostro congedo: addio senza implicazioni, senza segni tangibili dell’amore che provava per me.
Nei suoi confronti non sentivo alcuna attrazione, i suoi tentativi di seduzione mi lasciavano indifferente. 
Ella non era bella e nulla di lei stimolava in me una pur minima spinta emotiva.
Di piccola statura, spesso si aggrappava alla mia spalla sospingendo, sulla punta dei piedi, il corpo in alto, per sfiorare con la sue, le mie labbra.
Quando le comunicai che sarei partito, abbassando timidamente lo sguardo smarrito, col tremore nella voce, mi disse:
<<Non andar via. Resta qui con me >>.
<< Non posso. Devo andare. Il futuro mi attende in un altro luogo, in una città lontana da questo posto >>. Risposi, distaccato.
<<Ti terrò sempre con me>>. Riprese con una intonazione rotta dall’emozione. Poi colse un fiore di passiflora e me lo offrì.
Mi allontanai da lei, sicuro che non l’avrei mai più rivista.

Erano trascorsi venti anni da quell'ultimo addio quando, restando là in vacanza, decisi di ripercorrere quel tragitto che rinfrancava lo spirito e rinverdiva i miei ricordi di gioventù. 
Ero un uomo arrivato, ormai. 
Non ero più il giovanotto spensierato e felice di un tempo. La vita mi aveva riservato gioie e dolori che avevo vissuto con la maturità di un adulto e con spiccato senso di responsabilità. 
Rivedevo quei luoghi con gli occhi disincantati di chi ha conosciuto il mondo e le sue prerogative.
Ma la curiosità spinse i miei passi verso il caseggiato dal giardino fiorito. 
Nei pressi delle colonne diroccate vidi una donna dall'aspetto sgraziato. Vestiva un camicione, abbottonato sul davanti, che risaltava la magrezza del corpo e delle gambe ischeletrite.
Il capo era coperto da radi capelli devitalizzati, il volto aveva guance infossate, gli occhi incavati. Era l’immagine di una vita impietosa che lentamente, ma inesorabilmente, si stava spegnendo.
Mi avvicinai: volevo chiederle di quella minuta ragazza che avevo conosciuto molti anni prima ma un barlume di ricordo mi mostrò proprio lei, ritratta in un inclemente e triste mutamento.
<< Marisa!>> Esclamai incredulo, invocando il suo nome.
Mi scrutò con gli occhi vuoti, poi d’impeto mi gettò le braccia al collo; si sollevò sulla punta dei piedi e schiacciò le sue labbra sulle mie, in un disperato bacio appassionato.
Nessuna corda del mio essere vibrò per l’inatteso slancio d’affetto.
La scostai da me e la guardai in viso cercando di rivedere nei suoi tratti somatici la diciassettenne di un tempo ma nulla me la rammentava, soltanto qualche tenue traccia del suo aspetto.
<<Che gioia, rivederti. >> Mi disse con un sorriso colmo di contentezza.
<< Anch'io sono felice di averti ritrovata. Non sei affatto cambiata.>> Risposi, mentendo a me stesso.
Lei percepì il mio disagio ma con disinvoltura mi domandò:
<< Sei sposato? Hai figli? >>
<<Nulla di tutto questo. E tu? >> Ribattei.
<<No. Non mi sono maritata. Sono rimasta legata al mio primo, unico amore: tu. Ti ho aspettato in questi lunghi anni, nella speranza di incontrarti per l’ultima volta: ho la leucemia. >>
Rimasi annichilito.
Trascorremmo tutta la giornata insieme, ricordando i bei tempi passati, raccontando di noi. 
Giunse la sera, preceduta da un meraviglioso tramonto vermiglio, e una cascata di stelle di particolare brillantezza, ci trovò uniti nell'abbraccio dell’ultimo, definitivo addio.
<< Resta con me stanotte: fai che questa sia la più bella, dolce e tenera notte della mia vita.>> Mi implorò, con manifesto affetto.
Non volli negarle quel dono che offrivo in cambio della devozione e della fedeltà, lunghe un’esistenza. 
Ma per me era come dare un caritatevole obolo ad un povero elemosinante che tende la mano sul sagrato di una chiesa.
Eppure l’amai dissipando la parte di me che non accettava l’implicazione, ma non l’amai con l’anima.
Chiudendo gli occhi, immaginai flessuose e morbide forme e pelle di velluto. 
La mia era una pietosa offerta, un soddisfare il compiacimento di me, la parte più egoistica del mio altruismo. 
Le davo una piccola cosa, un ritaglio esteriore che il mio interiore si era sempre rifiutato di dare. Le concedevo con parsimonia un amore non totale.
“Dovremmo dare amore a coloro che lo chiedono con prodigalità, senza avarizia, con liberalità.”
Ma vivevo una realtà inventata, inimmaginabile, mai cercata, mai desiderata, sempre respinta e rigettata. Prestavo il mio corpo alle sue voglie.
Lei desiderava riappropriarsi della vita con un attimo estremo di felicità, prima della fine di essa, di un gioco d’amore che si confondeva col gioco della vita e della morte. 
Avevo avuto donne che non mi avevano ripagato con uguale amore. Ora ero amato e non riamavo con lo slancio del cuore ma solo col mio corpo offerto per soddisfare l’ultimo sogno.
I suoi occhi erano spenti ma un bagliore li accese.
<<Grazie, sono felice>> mi disse languida, con dolcissima mollezza. 
Nell'estasi del piacere, mi parve financo bella.
<<Ho amato solo te, per tutta la vita. Molte sono state le mie notti bianche trascorse a struggermi del desiderio di averti. Ora sei finalmente mio>>
La felicità le irradiò il volto e il corpo, prossimo alla fine, sprizzò vitalità. 
Una ciocca di capelli inermi rimase impigliata tra le mie dita.

Qualche giorno dopo, la donna morì: un vecchio contadino era entrato in casa dall’uscio lasciato aperto e l’aveva trovata esanime nel letto.
Tra le mani stringeva un biglietto con su scritto: “Non meditare sulle ceneri del nostro amore, in quelle polveri arse c’è la fiamma viva della mia passione”
Marisa

Per gratificare il mio ego, avevo compiuto un commiserevole, seppure, nobile gesto.
Mi domandai:<< Perché l’ho fatto? Forse per pietà?>>
<< No! >> Mi risposi. 
<<Ciò che c’ è stato tra me e Marisa è soltanto amore.>>

Gianfranco Pasanisi


Gianfranco Pasanisi

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