Dalla propria infanzia non si guarisce mai.

Come una ferita che duole quando il clima cambia.

Qualche volta si presenta e ci si chiede

da dove arrivi un profumo che da allora

non abbiamo mai più annusato

e l'aria diventa rarefatta, come se fossimo

in alta montagna proviamo quelle vertigini

e ci si scuote dall'altezza delle nostre gambe.

Ero piccola un momento fa

quando ho avuto una paramnesia

e mi sono specchiata adulta.

Mi sono sentita sollevare fra braccia famigliari

e l'odore dei loro indumenti,

la consistenza della loro pelle fine e rugosa,

il rumore dei calzari sul pavimento,

lo scricchiolio dei pioli in legno, 

le voci, l'estensione delle risate brevi

mai ridanciane, tutto misurato nei grembiuli

sopra le sottane lunghe e sotto ad esse

le lunghe camicie che servivano la notte

a riparare quei corpi, medaglie al valore,

piccole anch'esse, eroine pure loro,

come gli uomini che videro partire per quelle guerre che spesso non li portava indietro.

Mi sto cullando nel ricordo d'ombre d'alberi di fico, frutti viola_notte come i reticoli venosi

su per i loro arti, Vene grumose. 

Un ricordo di melagrane

aperte nei loro spacchi vanitosi

per mostrare le gemme diamantacee

dei piccoli frutti in grani.

Non c'è speranza nè risoluzione a quella nostalgia che ci portiamo addosso

il nostro unico voto di perpetua ricordanza

ed il rimorso per essere, in giovinezza,

scappata dalla tagliola delle regole e dell'educazione imposta.

Quando ancora potevo chinarmi,

io che divenni grande, su quelle stature imponenti ma fisicamente minute

e sentire ancora adesso la benedizione tattile

dei loro solenni baci sulla fronte.

Daniela Sulas

Dedicato a mia nonna Emanuela e a zia Caterina 

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