Dal Web - 11 gennaio 1999, lascia questo mondo uno dei più grandi cantautori  

E’ morto Fabrizio De André”, l’hanno detto alla radio. Era un giorno di gennaio del 1999, l’ultimo anno del secolo e non c’erano ancora i social network. Così uno lo annunciò in redazione, come fosse una cosa normale che anche i poeti morissero, come tutti, corrosi nel corpo che pure aveva prodotto suoni, musica e parole che volavano alte, sollevandosi dalla prona terra. Mi prestarono quel discone nero che si metteva ancora sul giradischi incorporato nella radio, cose di povera gente che cercava colonne sonore che aiutassero a sbarcare il lunario. Mia madre era affaccendata ai fornelli. Quando sentì “Via del campo c’è una puttana…” si voltò scandalizzata, non si dicono brutte parole, le canzoni sono fatte di vento e nei sogni non ci sono storie che si sentono in paese solo nel pettegolame del lavatoio e questo che voleva farci credere che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”. E allora le feci sentire “Preghiera in gennaio”, dedicata a Luigi Tenco. Quello sì che se lo ricordava che era stato uno scandalo, si era ucciso al festival, ma nella canzone c’era qualcosa che l’arciprete, se lo avesse saputo, ci avrebbe fatto su una predica, lui che la domenica guardava giù e minacciava la dannazione eterna per tutti e De André che invece cantava che “non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. E ancora il Dio abbandonato e tuttavia cercato nell’invocazione “E se ci hai regalato il pianto e il riso, noi qui sulla terra non lo abbiamo diviso” e quell’altra “eresia” di pretendere che Dio ci venga lui a cercare, “scendi dalle stelle e vienimi a salvare”. Poi le favole e le storie, l’irrisione di Carlo Martello che torna dalla guerra e trova che le tariffe delle puttane sono cresciute a dismisura e quel tipo che va a cacciare i cervi nel parco del re e viene impiccato con una corda d’oro. E quell’altro re che fa rullare i tamburi e commette lo stesso peccato del re Davide, quello dei salmi, che manda a morire in battaglia il marito della donna di cui si è invaghito. O il gioco delle parti dove Madamadoré della filastrocca deve pagare il riscatto con “le borse degli occhi pieni di foto e di sogni interrotti”, che già è un verso che vale un Nobel. Favole e miserie umane come quello dell’uomo “onesto, un uomo probo” che si innamora perdutamente “di una che non lo amava niente” e strappa il cuore di sua madre come prova d’amore, che era una storia che le mamme raccontavano già nelle stalle per mettere in guardia i figli da incontri con donnacce.

Un cantore di nostalgie, amori andati a male, debolezze umane, drogati, assassini che scappando si portano dietro “la memoria che è già dolore e già il rimpianto di un aprile giocato all’ombra di un cortile”, perché tutti hanno un’anima e non tocca a noi giudicare e tanto meno denunciare e il vecchio pescatore finge di dormire quando arrivano i due gendarmi e gli chiedono se ha visto il fuggitivo. E ancora drogati e suicidi, ladri e ruffiani, mafiosi e banditi che pure lo rapirono e lui ci ricavò altre poesie e canzoni, compresa un’Ave Maria finale struggente, disperata, di uno che è anarchico ma invoca salvezza oltre le leggi e le regole perché le dettano i vincitori dopo ogni battaglia, ogni guerra.

Un cantore della vita di uomini e donne che si incontrano e si scontrano per strada e che poi finiscono nei camposanti (“cadrà altra neve a consolare i campi, cadrà altra neve sui camposanti”). E l’Antologia di Spoon River che è poesia che supera l’originale, nani, ottici, chimici, giudici e il suonatore Jones che suona fino alla fine perché “suonare ti tocca per tutta la vita e ti piace lasciarti ascoltare "

Piero Bonicelli

 

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