A scuola ci facevano studiare a memoria le poesie. Che barba. Non dovevamo capirle, dovevamo recitarle. Non so voi, io non ne potevo più. Forse sono finito allo scientifico per reazione. Almeno là due più due faceva quattro. Ma, come tutta la mia generazione, non so più quante volte ho letto L'infinito o l'apertura della Divina Commedia, eppure non ricordo nessun insegnante o cattedratico, ma proprio nessuno, che mi abbia mai detto di una o dell'altra che i versi fossero degli endecasillabi. Perché? Forse non lo ritenevano importante, o semplicemente non lo sapevano. "Nel mezzo del cammin di nostra vita" o "e il naufragar m'è dolce in questo mare" sono versi immortali, indimenticabili che "suonano" nella mente e li conosce persino il mio macellaio o il meno dotto degli umani. Qui però stiamo parlando di poesia, ma cos'altro ci rimane in testa, spesso come marchiato a fuoco, per anni e anni, forse un'immagine, uno slogan pubblicitario, una musica, una canzone? Prendiamo allora una canzone a caso, di Faber, Guccini o Battisti, la prima che ci viene in mente, un ritornello che nessuno dimenticherà mai, per esempio

Ma che colore ha una giornata uggiosa
Ma che sapore ha una vita mal spesa

tutti sanno chi l'ha cantata e chi l'ha scritta e così la riportiamo ingenuamente, mentre invece dovremmo riportarla così, rispettando i tempi della musica e il ritmo del verso, perché lì è il suo segreto

Ma che colore ha
una giornata uggiosa
Ma che sapore ha
una vita mal spesa

Perché "il suo segreto"? Io ci ho messo quarant'anni per capirlo. Eppure è così semplice...
È perché qui abbiamo un settenario tronco seguito da un settenario piano, e possiamo anche ipotizzare che Mogol scrivendola non lo abbia fatto di proposito, ma ritengo impossibile che poi non l'abbia ricontrollata, per penetrare l'essenza di quel ritmo musicale, dell'armonia del cantato. E così come fa un compositore di musica, che suona e butta sul foglio le note d'istinto, poi riprovandole, lasciandole come sono nate o togliendone una e aggiungendone un'altra, stando bene attento a non danneggiarne "l'anima", così deve aver fatto Mogol, come sicuramente avevano fatto Dante o Leopardi.

Ma se la Poesia è fusione di "melopea, logopea e fanopea", cioè di musica, danza di parole e immagini, come si può presuntuosamente ignorare questo aspetto innegabile dell'arte? Da amante della poesia libera, da sempre nemico delle "contraintes", cioè dei vincoli, e tutte le restrizioni verbali, credo nella libera espressione e composizione della parola così come uno scultore plasma la sua arte su un blocco di marmo o in qualunque altra materia. Per questo non amo i pregiudizi, i presupposti, e le forme "poetiche" come tanka o haiku e simili, così lontane dalla nostra latina musicalità e dal nostro senso di libertà. Ma proprio per quella innata musicalità della nostra cultura, che non ha bisogno di essere "imprigionata", il mio consiglio è dunque: lasciate andare la vostra sensibilità, nel modo in cui lei vi guida e prende per mano, ma, alla fine, amici, contate le sillabe. contatele queste benedette sillabe ;-). Guardatevi, osservatevi, ascoltatevi. Se quel bianco vi sembra troppo luminoso, scuritelo un po', se quell'urlo è troppo rimbombante abbassatelo un pelino, o viceversa. Forse cambierà poco, ma sono certo che vi aiuterà persino a colorare una "giornata uggiosa". E anche ad amarla un po' di più, insieme a voi stessi.

 wink

 

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