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Scritto da Gianfranco Pasanisi. Pubblicato in Prosa il 07 Nov 2016.
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«Pss, pss, psss!»Mi bisbigliò. Mi guardai intorno circospetto, perché all’istante non percepii da dove provenisse quel sussurro.

«Pss, pss, psss!» Sentii ripetermi. Volgendo lo sguardo in direzione del flebile richiamo, vidi una sorta di uomo vitruviano che, attaccato alla parete, con le braccia allargate e le gambe unite sembrava Cristo in croce. Mi guardava con occhi impauriti, dilatati e premeva la sua figura sul muro, proprio là, all’angolo estremo della palazzina A della casa alloggio.

Sembrava volersi incamerare tra i mattoni rossi, diventare un tuttuno con la parete, tramutarsi in pietra per eclissarsi, per scomparire in quell’osmosi.

Con i capelli irti ed elettrizzati, il viso appiattito di lato, in uno stato di immobilità sconcertata, mostrava i segni del terrore dipinti sul volto.

«Pss, Pss, Psss!» Sibilò per la terza volta.

«Ehi, signore!» Continuò a fil di voce. «Per favore guardi dietro l’angolo.»

«Dietro l’angolo?» Gli domandai.

«Si, dietro l’angolo. Devo attraversare la strada ed ho paura di essere visto.»  Rispose in preda al panico.

«Visto da chi?»Richiesi.

«Da mia moglie. Ella mi perseguita, mi controlla, mi spia, mi segue, mi tallona.»

Mi sporsi oltre lo spigolo del caseggiato, scrutai attentamente fino all’orizzonte visivo, vagliai ogni angolo, ogni rientranza della strada. Non vi era anima viva.

«Stia tranquillo! Può attraversare. Non c’è nessuno.» Lo rassicurai.

«Guardi bene, per favore. Ella sa ben occultarsi, si cela per poi comparire all’improvviso come un fantasma. È un camaleonte, si mimetizza con le siepi, piglia la tinta delle auto in sosta dietro cui si nasconde, per camuffarsi assume il colore verde, rosso, grigio, nero delle cose. Lei non la conosce… è capace di tutto.»

Riguardai, per tranquillizzarlo. Poi con tono incoraggiante lo invitai ad attraversare. Egli abbassò le braccia, le fece oscillare in parallelo per prendere la rincorsa e, con la velocità del vento, si portò sull’altro margine della strada, incollandosi come manifesto, con le braccia tese in alto, sul muro della palazzina B.

In quel mentre vidi avanzare verso di me il mio amico strizzacervelli, il Dottor Angelo De Bolis, direttore della Casa Alloggio Psichiatrica.

Leggendo sul mio volto lo stupore originato dalla scena cui avevo assistito, mi sorrise divertito. Poi con affabilità, indicando quel soggetto eccentrico, mi rassicurò: «Clodomiro è un nostro paziente. È un tipo tranquillo, non farebbe del male neppure a una mosca. È qui per sottoporsi a cura farmacologica e psicologica che lo liberi dall’ossessione della moglie, ch’egli considera un’acerrima nemica che complotta contro di lui.»

«È donna così perversa costei?»Gli domandai.

«Malvagia proprio no. La definirei piuttosto insopportabile, stressante, accentratrice, opprimente, prevaricatrice, petulante… E chi più ne ha, più ne metta. Ah! Ho dimenticato di usare il termine che meglio la qualifica: An-nien-tan-te.»

Mi interrogai ad alta voce: «Può una donna di tale fatta ridurre in condizioni così miserrime un uomo?»

«Certo… Soprattutto se questa catastrofe umana si rovescia con tutta la sua forza devastatrice su un persona fragile e imbelle come Clodomiro. Questo tu non puoi comprenderlo, perché sei un single impenitente con l’aggravante di essere affetto da scapolite acuta. Tale situazione ti è completamente sconosciuta.»Sottolineò l’amico ripara-matti.

In quel mentre vedemmo avanzare verso di noi una donna corpulenta.

«Lupus in fabula!» Esclamò Angelo. «La donna che sopraggiunge è la signora Ubalda, moglie di Clodomiro.»

Quando fu abbastanza vicina, la osservai attentamente. Si presentò in tutta la sua tracotanza fisica: alta, imponente, tracimante, muscolosa in sovrabbondanza. Esponeva, in bella mostra sul viso truce, due more mature, due grossi porri contornati da cespugliosi e ispidi peli, collocati in perfetta simmetria ai due lati della bocca pronunciata. La capigliatura era scomposta ed arruffata e si allungava in due lunghe basette lanuginose. Un’incauta quanto approssimativa ceretta non aveva del tutto estirpato il pelame dei baffi che ora si proponevano con un alone grigiastro. Gli occhi cisposi erano sovrastati da una foresta di peluria sopraccigliare.

Confesso: nell’osservarla si rafforzò in me, in modo definitivo, la vocazione al celibato.

Senza scomodarsi neppure per un saluto, determinata e scostante, ci passò accanto e si avviò dritta in direzione del marito che, nel vederla, tentò di scomparire ancor più nel muro, stirandosi fino all’inverosimile.

«Clodomiro!» Urlò la donna con voce risonante, ponendo i pugni chiusi sui fianchi a mo’ di sfida e muovendo la mandibola volitiva.

«Clodomiro non c’è.»Rispose il tormentato pusillanime.

«Non fare il cretino! Imbecille, ti vedo.»

«Ti dico che Clodomiro non c’è.» Ribadì il meschino, sforzandosi di apparire il più convincente possibile.

Perentoria ella lo rimproverò: «Ora basta! Mi sono rotta di assecondare le tue manie persecutorie. Vieni qui!» E nel pronunciare quelle due ultime, semplici parole, ci mise tanta asprezza che il marito si ritrasse spaurito.

Del resto, le aveva accompagnate col gesto della mano puntando il dito indice all’altezza delle scarpe, così come si fa con un cane che non vuole ubbidire al suo padrone.

L’amico mi guardò con occhi compiacenti. Poi spiegò:

«Vedi! Per far guarire più rapidamente il paziente, occorrerebbe per prima cosa adottare una tecnica psicoterapica di coppia. Io li terrei entrambi qui ma tra marito e moglie vi è tale avversione che questa modalità di cura diventa improponibile.»

Gli accordai tutta la mia comprensione:

«Mi rendo conto delle difficoltà che siete chiamati ad affrontare per la difficile soluzione di questo caso patologico. In coscienza non ti invidio, pur nella consapevolezza che la tua assiomatica preparazione professionale ti porterà al successo.»

Intanto la signora Ubalda proseguiva imperterrita il chirurgico massacro del marito. Lo investiva di mille domande con un linguaggio irriverente e torrenziale: «Ti sei cambiate le mutande? Hai fatto la doccia? Perché non ti sei sbarbato? Ti sei spazzolate le scarpe? Ti sei lavato i denti? Hai cambiato la maglia interna? Hai fatto colazione? Hai pulito la tua camera? Ti hanno dato le pillole? Ti hanno fatto l’iniezione?»

Poi, impietosa: «Parlerò col Dottor De Bolis perché possa tornare a casa al più presto. Hai bisogno delle mie attenzioni. Non sai vivere senza di me. Se non ci fossi io, saresti un uomo inutile, un uomo sciatto, trasandato.»

Ad ogni parola profferita dalla donna sembrava che gli aculei di una immaginaria corona di spine trafiggessero la fronte del povero cristo. Egli si contraeva in spasmi di dolore e, mano a mano che ella proseguiva nel suo eloquio incalzante, si ritraeva con le mani sulle orecchie, in posizione raccolta come a volersi chiudere nel guscio di una lumaca o nel carapace di un crostaceo. Desiderava dissolversi, sprofondare al di sotto della crosta terrestre.

E la donna inesorabile era lì a tormentarlo ancora: «Sei un essere inutile, un uomo senza attributi… Un vero fallimento.»

Osservando quella scena, provai nei confronti di Clodomiro un sentimento di umana pietà ed una profonda solidarietà di genere… Maschile... Naturalmente.


Gianfranco Pasanisi

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