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                                                                                               Gilda: Se i labbri nostri tacquero

                                                                                                         Dagli occhi il cor parlò

                                                                                                         (Da “Rigoletto” di Verdi)

   

Il silenzio, spesso, era il complice compagno delle nostre serate. Messi a letto i bambini, ci piaceva sprofondare sul divano, senza dirci niente.

     Lei era solita stendersi adagiando la testa sulle mie ginocchia; io seduto ero prodigo di carezze che le largivo al viso ed ai capelli.

     Stavamo cosi per lungo tempo.

     Talvolta ci piaceva stare con la luce spenta ed essere avvolti dal buio, perché nell’oscurità ciò che gli occhi non vedono e le parole non dicono lo percepisce il cuore.

      Nella nostra realtà quel silenzio senza immagini si tingeva di vari colori, di varie sfumature.

      Ci esprimevamo con un linguaggio tutto nostro che altri non avrebbero potuto decifrare e, con quel codice, riuscivamo a leggere i nostri segreti pensieri.

      I silenzi di Liliana poi erano fatti di tormenti, di introspezioni, di analisi, di sentimenti pudichi che si agitavano nel suo interiore e mai esteriorizzati se non dall’espressione del volto, dalla radiosità o dalla cupezza dei suoi lineamenti, dal corrugarsi della fronte o dal suo spianarsi.

     Solo chi, come me, viveva in perfetta simbiosi col suo intimo, poteva leggerne i geroglifici dell’animo, interpretarli e tradurli. 

     Alcune volte la sua mente era attraversata da tristi ricordi; l’espressione del suo viso si contraeva ma il suo sorriso era comunque lo stesso: rassicurante.

      Pareva mi dicesse: I mie mesti pensieri riguardano il passato, ma il mio sorriso ti dica quanto ora sono felice.

     Lei parlava con gli occhi, con gli sguardi ridenti o tristi, con le labbra atteggiate a dolci sorrisi o a smorfie di dolore.

     E talvolta parlava di sé con le mie dita.

     Quando la sua mente era attraversata da tristi pensieri, da dolorosi rimpianti, da funesti ricordi… Quando il suo essere inquieto cercava conforto e condivisione mi torturava piacevolmente le pipite delle unghie, sfregandole contro le sue.

    Quel silente stato di abbandono ci univa perché composto di immagini che si modellavano nel nostro sentire e che avevano quali protagonisti noi due insieme o noi due distinti.

    Come erano piacevoli quelle serate senza la televisione, vissute in completa fusione emotiva in cui non erano necessarie le parole per esprimere i moti dell’anima.

    La dolce meditazione in cui ci immergevamo era armonia: una consonanza di voci, di accordi che destavano in noi una sensazione di piacere coinvolgente i sensi e l’intelletto.

    A volte era la cornice di una tela, dipinta a due, raffigurante frammenti di vita vissuta insieme e non era raro scoprire che in quelle lunghe pause del linguaggio avevamo seguito uguali itinerari, identici ricordi.

     Era piacevole poi svelarci che la nostra mente era stata attraversata dagli stessi pensieri.

 

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About the Author Gianfranco Pasanisi

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