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Written by Cristiano Sias. Posted in Notes and thoughts on 26 Oct 2021.
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Intervento di Cristiano Sias al caffè teatro “Il Pidocchietto” di Aprilia la sera del 7 dicembre 2014 nello spettacolo “Aspettando il Natale - Poesie sotto l’albero”, in occasione del Concorso Internazionale “Carmelina Ghiotto Zini” e del Premio “Raimondo Venturiello”.
 

 

Ho deciso di riprendere - chiarendolo - quel mio discorso “a braccio” per rimarcare alcuni concetti e perché, pur fra i complimenti generali ricevuti, sembra che qualcuno – per naturale coda di paglia oppure perché, forse distratto, non ne ha compreso appieno il significato – abbia affermato che “me lo potevo risparmiare”.

Io penso invece che di questo argomento non si parli mai abbastanza, che quella fosse un’occasione irripetibile e che coloro i quali lo rifiutano non solo abbiano qualche problema di comunicazione artistica e ignorino la realtà del mondo dei net-writers di inizio millennio, che ha portato alle empatiche e talvolta entusiasmanti affermazioni di cultura contemporanee, ma soprattutto che non siano dei veri poeti e neanche amino veramente la poesia.

“Dopo una gran folla iniziale, vedo purtroppo alcuni posti vuoti in sala. Molti poeti e amici hanno ritirato il loro premio e sono andati via senza attendere la premiazione finale. Ricollegandomi alla chiusura della mia poesia che parla di “inginocchiarsi all’altare di chi toccava ali di farfalle, impedendone il volo” mi viene in mente che, venendo qui, durante il viaggio mi sono chiesto se fossi felice di questo premio in ricordo di Raimondo Venturiello e che la risposta è stata: no. No, io non sono felice.

Certo, sono fiero di onorare e ricordare il nome di Raimondo e sono contento di condividere con voi questa splendida serata, ma non sono felice. Non posso esserlo, perché lui non c’è e perché io non posso rappresentare Raimondo Venturiello. Io non posso rappresentare lui, come lui non poteva rappresentare me. Le nostre poesie erano diverse, pur se simili in certi aspetti. Eppure io e lui, insieme, eravamo “qualcosa”; io e lui e anche tu, insieme, siamo qualcosa di più; io, lui e tu e anche tu, siamo qualcosa di più ancora. Perché tutti insieme siamo qualcosa di grande, ma da soli siamo piccoli così, non siamo che pulviscolo! Tutti insieme, invece, noi siamo un universo, NOI siamo LA POESIA.

Ed ecco che non conta più chi vince un concorso, quale poesia sia la più bella, ma conta l’amore e la passione che riusciamo a trasmetterci l’un altro. Conta l’universo della poesia perché ogni poeta da solo non è che una piccola insignificante stella.

Ascoltate ora queste parole che ho raccolto oggi su internet prima di venire qui:

- Noi siamo poeti che crescono nelle battaglie più dure, che si contaminano l'uno con l'altro, confrontandosi ed incavolandosi, che sono costretti a infondere la musica nei testi perché non possiamo declamarli enfatizzando e creando una musicalità che non c'è.

E ancora:

- C’è una cultura dell'apparire. In essa c'è "tutto l'uso improprio che, della poesia, si sta facendo ai tempi nostri. Poesia fatta di parole che - si vendono - per comprare qualche cosa (un po' di effimera gloria con vocaboli buttati a caso, un po' di affetto virtuale in rete, una leadership che dura il tempo di una classifica in Home Page)".

Queste parole mi furono dette da un poeta più di dieci anni fa. Ora io mi domando e vi domando: è davvero cambiato qualcosa in tutti questi anni? Siamo veramente sicuri di aver operato, ognuno di noi, affinché non fosse più così? O qualcuno si è un po’ perso nel suo isolamento, pensando che bastasse vincere un concorso o pubblicare una raccolta per sentirsi poeta e vivo? Ed ecco che quella persona che “toccava ali di farfalle” e che “vi giudicherà quando non saprete più volare” potremmo essere “noi stessi” che ci inchiniamo all’altare del nostro “assassino”, il nostro stesso altare dunque, l’altare di ognuno di noi, responsabili di un volo che non riusciamo più a realizzare.

Raimondo Venturiello questo lo sapeva bene, lui credeva in questa idea. Perciò voglio chiudere con queste sue parole che suonano ora come un monito:

«Eccole, le mie mani, guardale: sono piene non di parole vuote che fanno un po’ rumore sfregandole tra loro a caso, né le ho prese a caso lungo strada per far passare il tempo che non passa o lo fa fuggendo. No, non voglio che fugga proprio adesso venendo incontro a te con doni di parole piene di me chiedendo di mixarle alle tue e di riempirne insieme le mani, da serrare come maracas poi, ad ascoltarne il ritmo: rumore no, ma musica!»

Ed ecco che occasioni di festa come questa devono costituire anche motivo di riflessione sulle nostre responsabilità e la nostra lealtà artistica. Perché questo ci chiede la Poesia e noi abbiamo il dovere di tener fede a questo impegno, affinché tutti insieme si possa tornare a volare, a cercare il bello, perché la cultura abbia un senso che oltrepassi la nostra individualità, il nostro glorificarci e si possa costruire e crescere insieme in un universo che non possa mai sparire e che mai potrà limitarsi soltanto al nostro “altare”.

Rumore no! Ma Musica!

(Pubblicato nelle note "scomparse" di Facebook,  il 10 dicembre 2014, recuperato oggi, sempre attuale)

In difesa della Poesia: il pulviscolo dei poeti che ne rende grande l’Universo

 


Cristiano Sias

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