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Scritto da Carmen Cantatore. Pubblicato in Prosa il 28 Set 2016.
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Da molti lustri mancava. La sua seconda patria le era rimasta nel cuore tutto quel tempo anche se, nel ricordo, ogni sensazione s'era affievolita. Nonostante ciò, bastarono pochi secondi perché tutti i suoi sensi riconoscessero ogni percezione che la vista di quei luoghi suscitava. Stava planando verso l'aeroporto, quando la nostalgia le si fece largo nel cuore. S'intravvedevano i tipici tetti a terrazza, il groviglio di cavi e antenne, le barche e la linea di demarcazione tra il mare e la terraferma. La sua cittadina stava sfilando sotto le ali del velivolo in rotta verso la pista di atterraggio. Un caro e vecchio amico l'aspettava nel grande atrio degli arrivi. L'agitazione e l'impazienza s'impossessarono di lei, cominciò a respirare profondamente e lentamente per contrastare il movimento affannoso del torace. Ancora poco e i suoi piedi avrebbero toccato il suolo tanto amato.

L'aria era calda nonostante fosse già  metà ottobre, il breve viaggio in automobile diede loro la possibilità di stemperare il clima di aspettativa che li avvolgeva, iniziarono a parlare dei vecchi tempi, ripercorrendo quel segmento di vita vissuta insieme che li aveva visti crescere non solo anagraficamente ma soprattutto emotivamente. In breve giunsero a destinazione, l'accoglienza calorosa sancì ulteriormente il legame che già esisteva tra loro e tutto presupponeva una splendida vacanza. Il giorno dopo avrebbero visitato le molte bellezze che quel paese dall'architettura medievale riservava ai turisti. Il museo, l'antica cattedrale, il centro storico con il labirinto di vicoli e le case costruite con lo splendido e abbagliante tufo bianco avorio. Tutto era pulito e ordinato come in un plastico, ogni cosa in armonia con l'ambiente. 

Camminavano sul selciato reso lucido dal continuo scarpinare  di tanta gente, per secoli, prima di loro. Lei ricordava ogni pietra ed ogni spigolo che formava quei geometrici disegni sulle vie. Quanti giochi, da bambina, su quelle lastre di roccia. Improvvisamente si fermò e guadando negli occhi il suo caro amico disse: "Devo andare dai miei cipressi. Voglio andare. Mi aspettano!" e riprese lesta avanzando verso la periferia. Non ci volle molto, il posto non era lontano. Dopo un'ultima curva la strada scendeva ripida lungo la collina che degradava verso il piano e là in fondo, immobili e altere come una lunga fila di frati in processione, sbucarono le cime delle piante. Già s'intuiva, in mezzo al cupo verde, l'ampio viale che costituiva l'accesso al cimitero. Le bouganville riempivano di colore i margini della strada e il profumo di fiori, nascosti tra gli ulivi, deliziava le narici. Le emozioni erano davvero troppe, affrettarono il passo e subito oltre l'ultima curva apparvero, altissimi, secolari, ombrosi e un po' burberi. L'asfalto in mezzo alla via si srotolava come un lungo nastro diritto e invitava al cammino. Ad ogni lato della carreggiata, oltre i grossi tronchi degli alberi, correva un largo sentiero pedonale, lastricato di ciottoli e di grosse bacche cadute dai rami. Li costeggiava un muro in sassi a secco, a delimitare la campagna che si estendeva verso il mare con le sue preziose coltivazioni di ulivi e mandorli. Il profumo era intenso, riempiva l'aria ancora estiva, il silenzio si percepiva sacro e solenne... Persino sussurrare sembrava inopportuno, camminavano fianco a fianco, respirando piano. I cipressi sfilavano ai lati e  i loro alti vertici ondeggiavano lentamente nella brezza. Improvvisamente un rumore sommesso, una specie di rantolio attrasse l'attenzione di entrambi, alzarono il volto e guardarono avanti. Alcuni cani occupavano il passaggio. Erano magri e sporchi, randagi. Stavano immobili al centro del viale, guardando fisso verso di loro, gli occhi senza espressione erano minacciosi. Si fermarono entrambi, indecisi sul da farsi. Un paio di latrati più forti si alzarono da quel branco di raminghi inducendoli a indietreggiare, lentamente, senza bruschi movimenti. I cani avanzarono, in silenzio, le code diritte. Non c'era modo di nascondersi, la campagna era vasta e aperta, la sua terra rossa parve improvvisamente inospitale, nessun albero abbastanza alto per trovare rifugio, a parte gli elevati picchi verdi dei cipressi, impossibili da scalare. E venne il panico, percorse le membra lungo vie nervose paralizzando e stimolando, violenta, l'adrenalina. Infine la corsa, l'inutile corsa, verso un'ipotesi di salvezza inesistente. Non ci volle molto al branco affamato per raggiungere i due che ansimavano nella folle fuga, senza più nemmeno il fiato per gridare. A che sarebbe servito gridare, non v'era anima viva nel raggio di chilometri. Con l'ultima forza che rimaneva si arrampicarono sul muretto e lo scavalcarono. Il branco percepiva l'odore della paura e si fece più audace, aumentò la corsa, qualche latrato subito si trasformò in ringhio, altri abbaiarono furiosamente, oramai solo pochi metri dividevano i fuggiaschi dalle fauci spalancate delle bestie affamate. In un ultimo tentativo lui la guardò con gli occhi furenti di rabbia e paura per l'impotenza che subivano, per la sorte che, come un ghigno malevolo, si stava avvicinando a grandi falcate, lei inciampò su di un ramo secco, tanto non rimaneva molto da fare se non cercare di ripararsi in qualche modo acciambellandosi al suolo. Fu proprio in quel viale di antichi cipressi, sotto quel doppio filare di piante tanto amate,  là ebbe l'alba il giorno più nefasto della loro vita. 


Carmen Cantatore

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Carmen Cantatore ha risposto alla discussione #1 05/10/2016 17:13
Grazie Ester, sono felice che ti sia piaciuto il racconto. In realtà è una rivisitazione di una episodio reale che non è finito, però, così tragicamente anche se ciò che finisce, a volte, non è la vita ma il tipo di relazione e non sempre si tratta di una fine tragica. Senza dubbio la storia è cambiata, ai posteri verificare se il cambiamento sarà stato positivo o negativo.
Ci sto scrivendo un 'libro' su questa storia...
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